Sorprende che ad una analista attento ed esperto, quale è Cominelli, sfugga un elemento semplice e determinante per un affronto realistico della questione dell’insegnamento della religione cattolica: in un’ora alla settimana per classe (circa 45 minuti effettivi) e con circa 28 ore/anno per classe, in un contesto di generale discredito e senza parte degli strumenti di cui dispongono gli altri docenti, come pensa che gli insegnanti di religione possano affrontare dignitosamente i nuclei fondanti della disciplina: biblico, teologico-dogmatico, cristologico, ecclesiologico? Ci rendiamo conto della enorme portata di questi temi, e del tempo che richiederebbero per poter essere affrontati con un minimo di sostanza? 



E’ evidente che i docenti cerchino di barcamenarsi per fare del proprio meglio, ma che i risultati non possano essere altro che quelli presentati nell’articolo, cioè negativamente eclatanti: “gli studenti che hanno una buona conoscenza della religione cattolica sono compresi in un range tra il 20% e il 40%; ignoranza crassa della Bibbia; indice di performance superiore nelle scuole statali rispetto a quelle paritarie; imparano di religione più fuori che a scuola”.



Dispiace abbastanza l’allusione alla preparazione dei docenti. La maggior parte di questi —come me e meglio di me — ha due lauree (quella statale e quella in scienze religiose), oltre ad una forte motivazione ideale che si traduce anche in formazione e approfondimento permanenti (quanti altri insegnanti hanno queste caratteristiche?) e sarebbe sicuramente in grado di svolgere il proprio compito. Ma le condizioni effettive non lo consentono. Provare per credere! 

Il problema vero è il pastrocchio politico-clericale che sta a monte, con un Concordato (quello del 1984) che pur di mantenere la presenza a scuola della “materia”, ha accettato nei fatti — riducendola ad una mera opzione di coscienza — che fosse trattata come una realtà priva di dignità epistemologica e di una effettiva validità culturale.



La tesi dell’irrilevanza e della marginalità della questione religiosa, che la cultura del tempo stava già ampiamente diffondendo, è stata così sancita definitivamente anche a livello scolastico.

Sono reali ed evidenti alcuni gravi problemi presentati nell’articolo, e anch’io auspico che vengano affrontati costruttivamente. Per restituire dignità alla disciplina basterebbe, se non altro, ripristinarne l’obbligatorietà, aumentarne il monte ore e permetterle la valutazione degli alunni come per le altre materie. Ma non sarà facile né probabile. 

Meglio toglierla, allora? Davvero, come dice Cominelli, “un tale Irc non aiuta a conquistare la fede … e l’inadeguatezza dell’Irc contribuisce a far smarrire la fede trasmessa per via familiare”? Non credo proprio. Innanzitutto, non è compito dell’Irc portare gli alunni alla fede. Siamo a scuola: sarebbe sufficiente aiutarli a conoscere il fenomeno religioso e i fondamenti della religione cristiana; aiutarli a farsi delle domande, a usare la ragione, a desiderare di conoscere e di approfondire i temi proposti.

E dirò di più: nonostante tutti i problemi, le criticità e i limiti, spesso l’insegnante di religione è un punto di riferimento per l’intero istituto e un raggio di luce nel buio che caratterizza la vita di tanti studenti. Ne ho scritto qualche tempo fa in occasione della prematura scomparsa di una cara amica insegnante di religione (“Daniela, un sorriso che ha cambiato la scuola”, La nuova bussola quotidiana, 11 gennaio 2013) alla quale — a ulteriore riprova di ciò — è stata recentemente dedicata la biblioteca della scuola superiore nella quale insegnava. 

Questo apre ad alcune considerazioni conclusive sul numero degli avvalentesi. 

Se è vero, come risulta dai dati pubblicati annualmente da apposito servizio della Cei, che dal 2001 l’incidenza è scesa di 5,5 punti percentuali (dal 93,4% all’87,9% gli studenti che si avvalgono dell’Irc), è altrettanto vero che nel frattempo nella scuola statale sono aumentati considerevolmente gli alunni stranieri di altre religioni che possono decidere di non avvalersi dell’Irc. 

Inoltre, si è verificato per la prima volta un fatto anomalo: alle superiori, dove la scelta viene effettuata direttamente dai ragazzi e quindi “è notoriamente più esposta alle opzioni negative”, i numeri nel 2014/15 sono stati in deciso aumento. Se, infatti, nel 2013/14 gli studenti che avevano scelto di avvalersi dell’Irc erano stati 2.082.938, pari all’80,7% del totale, l’anno successivo sono stati 2.109.607, cioè 26.668 in più. 

Forse, a fronte dell’importante ondata migratoria che sta interessando l’Italia e l’Europa, i giovani iniziano ad avvertire l’urgenza di  conoscere i fondamenti della cultura occidentale, di cui il cristianesimo è senz’altro uno dei capisaldi; come pure, di fronte all’ondata di terrorismo di matrice islamica, iniziano a chiedersi cosa stia accadendo e in che misura il fenomeno religioso incida — nel bene e nel male — sulla vita e sulle vicende dei popoli. 

Vedremo se le iscrizioni di quest’anno confermeranno questo rinnovato interesse. 

Nell’attesa, ringrazio Cominelli per aver sollevato il problema con franchezza e stimolato il dibattito, che è senz’altro utile e necessario. Però con realismo, senza sparare sulla Croce Rossa.