L’ora di religione cattolica all’interno delle scuole statali è stata al centro, nell’ultima settimana, di un interessante dibattito su queste colonne tra Cominelli e Lepore e tra i loro gentili commentatori. Il punto di partenza è stato una ricerca commissionata dalla Conferenza episcopale lombarda che Cominelli ha analizzato con consueta lucidità e intelligenza, giungendo ad affermare — in buona sostanza — il fallimento dell’insegnamento della religione nella scuola. Un fallimento per lui anzitutto culturale, addebitabile allo status che quest’ora riveste all’interno del sistema scolastico nazionale e alle modalità con le quali si è cercato di conservarlo con il Concordato del 1984. 



Lepore, dal canto suo, pur condividendo molte delle osservazioni del collega a livello normativo, ha voluto rilanciare il valore comunque positivo della disciplina soffermandosi sulla presenza significativa di molti docenti di religione nelle scuole di ogni ordine e grado e sui dati di frequenza tornati nell’ultimo anno ad essere più lusinghieri che in passato. La ricerca da cui il dibattito è partito parla infatti dell’87,9% di avvalentesi, con un calo medio di circa il 5% dagli inizi degli anni duemila, ma con un recupero di alcune migliaia di unità rispetto al recente passato. L’intera discussione è stata molto interessante e meritevole di ulteriori approfondimenti, ma ci terrei — da insegnante e da sacerdote nato proprio nell’anno del Concordato — a fare tre piccole sottolineature.



1. Anzitutto è bene considerare che la lamentela più diffusa in merito all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole è che esso non gode degli stessi diritti e dello stesso valore delle altre discipline. Io credo che questa osservazione sia, in un certo senso, figlia della cultura marxista che fa dipendere il valore sociale di un’esperienza, di un’appartenenza, di un fenomeno sociale, dal potere che ha. Il vero problema dell’ora di religione sembrerebbe dunque essere quello di non avere alcun vero potere all’interno della scuola. Quando un uomo non ha più niente da dire, quando una generazione di adulti è stata sconfitta dalla storia e vive rinchiusa nel mugugno (a Genova lo chiamiamo così il lamento e il pettegolezzo), incapace di essere ancora “viva” e “vitale”, allora l’unica cosa che la può tenere in piedi è il potere. Molti insegnanti e molti genitori, se non avessero un qualche potere sulla vita dei loro figli — il potere di dare loro denaro, di concedere loro il motorino o il cellulare, o il potere di farli andare ad una festa o di rovinare loro la giornata con un “4” — non sarebbero seguiti o ascoltati da nessuno. È il potere di valutare, e di essere quindi dotati di uno strumento socialmente rilevante, a conferire sempre più spesso l’ultimo residuo di autorità ai nostri adulti. Senza potere la stragrande maggioranza di loro non andrebbe da nessuna parte, non sarebbe più capace di dire e di dare niente all’inquietudine che tormenta la giovinezza degli studenti. 



L’ora di religione, in tal senso, è la prima materia nuova della scuola italiana. Perché essa si è liberata degli orpelli del ricatto e dell’obbligatorietà per consegnarsi al rischio totale della libertà degli alunni. Il fatto stesso che l’87,9% di loro continui a dire di sì a questa proposta è quindi la vera notizia su cui dovremmo realmente fermarci a riflettere. Quando tutti potrebbero andare a casa prima, o quando si potrebbe uscire e fare merenda, o restare a letto e dormire, e anche un solo ragazzo, una sola famiglia, decide di non farlo e, in cambio, non ne ottiene nulla, allora — e solo allora — possiamo dire di assistere a qualcosa di totalmente nuovo che nessuna riforma può davvero produrre: il miracolo della libertà, quel miracolo che ogni giorno accade sotto i nostri stessi occhi e che noi, come sempre, ci ostiniamo a non considerare. Tutti presi da come aumentare il nostro potere.

2. Si potrebbe allora dire che queste osservazioni sono molto belle e condivisibili, ma che non è questo il punto e che molto, in definitiva, dipenda — come dice un mio collega — dal fascino dell’insegnante e non della disciplina. A parte il fatto che io non ho mai visto folle di ragazzi impazzire per un libro, ma solo per una presenza (da quella della mamma fino a quella della biondina del terzo banco), la domanda che mi faccio è un’altra: ma davvero per insegnare bisogna essere geniali e “al passo con i tempi”? Davvero l’insegnamento è una categoria riservata a super eroi travestiti da cinquantenni trendy e cool? Io, per la misera esperienza che ho, mi rendo conto che insegnare significa comunicare qualcosa che ha travolto te, che ha segnato te. Se quello che insegni non ti ha ferito, tu non potrai mai raggiungere e ferire l’Io di chi ti sta davanti. Potrai dire la cosa giusta, fare la cosa migliore, usare i metodi più indulgenti o innovativi, ma rimarrai sempre un uomo solo che non riesce ad uscire dalla sua solitudine nemmeno davanti ad una vita che ti fiorisce davanti agli occhi, e rimarrai sempre un Io che non riesce a dire Tu. Insegnare è incontrare chi c’è in classe e permettere che rimanga nella sua classe, nella sua storia, senza che egli diventi — per forza — un tuo discepolo. Nessun grande educatore è mai entrato in aula per fare proseliti, ma solo per trasmettere la passione alla vita di cui egli — attraverso la letteratura o i numeri, la religione o l’arte — aveva fatto esperienza. E questo colpisce, questo rimane, questo davvero cambia. 

3. Permettetemi, infine, di dire che tutto questo non vuole mettere in discussione i giudizi storici e le riflessioni dei miei due illustri “colleghi di penna”, ma vuole essere una premessa dopo la quale si può parlare di tutto, dal pastrocchio del Concordato dell’84 all’assetto di sistema di un’ora che, come dico sempre in classe, non è solo un’ora, ma è qualcosa di più. Però, ci tengo a dirlo, io non ne parlerei per rendere la “nostra” materia obbligatoria come le altre, ma per rendere le altre libere come la “nostra”. Questa sarebbe un’interessante sfida, un’utile e prorompente provocazione che dovrebbe poi — per forza — mettere anche a tema l’annosa questione del reclutamento del personale docente. Di religione e non. Perché, come ci insegna Checco Zalone, di posto fisso si può anche morire. Ma solo di passione e di libertà, e questo invece lo dico io, si può davvero vivere.