Dieci anni fa veniva pubblicata la “Raccomandazione” europea sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente (18 dicembre 2006). Il tema della competenza, già oggetto da qualche tempo di riflessioni e discussioni, fece registrare un’accelerazione fulminea nella cultura scolastica italiana. Come accaduto in passato per altre strategie mutuate da contesti educativi diversi dalla nostra tradizione — ad esempio, negli anni 70 la pedagogia per obiettivi — la sua acquisizione si compì senza colpo ferire. 



Nonostante che la “Raccomandazione” si articolasse in un ampio spettro di competenze, sulla scena scolastica essa prese una fisionomia soprattutto cognitiva e cioè come rendere più efficace l’apprendimento. La pratica competenziale divenne rapidamente una parola d’ordine a tal punto avvolgente da accreditarsi, con il sostegno ministeriale, di una sorta di missione salvifica, pur sullo sfondo di interpretazioni assai diverse. 



Alcuni studiosi hanno definito la competenza come l’integrazione di capacità, conoscenze e competenze: la capacità quale dimensione potenziale del soggetto che apprende che si svolge in competenza mediante l’agire personale. Altri studiosi hanno invece accostato la competenza mediante la reinterpretazione delle teorie del problem solving (e cioè dell’apprendimento come scoperta): cos’è la competenza se non la disposizione a trasferire ciò che si è già appreso in contesti inediti? Interpretazione dietro la quale occhieggiano la teoria bruneriana dell’apprendimento e, più indietro, quella di Dewey. 



La competenza andrebbe incoraggiata per creare nel soggetto la disposizione a dirigere il proprio apprendimento così da mettere in moto un insieme combinato di azioni che gli consentano di far progredire il sapere mediante vari passaggi tra loro concatenati: osservare, analizzare, preparare, organizzare, gestire, controllare e valutare. Qualche studioso si è spinto a distinguere tra competenza (l’azione di apprendere) e sottocompetenze (le dimensioni cognitiva, affettiva, relazionale che sarebbero messe in circolo durante l’esercizio competenziale).

Comune è stata la convinzione che il ricorso alla competenza contribuirebbe al superamento del nozionismo, del verbalismo, dello mnemonismo e assicurerebbe non solo un apprendimento reale, più solido, ma soprattutto personale e duraturo nel tempo. 

I generosi sforzi per sottrarla ai rischi di una quasi inevitabile deriva funzionalistica non sono riusciti tuttavia a cancellarne la carica ideologica e la visione di scuola che ne deriva, sinergicamente legata (e dipendente) ai processi economici. La competenza in chiave cognitiva risulta infatti fatalmente incapsulata nell’orizzonte della performance, da gestire soprattutto secondo modalità organizzative e predisposta per essere facilmente misurata. 

L’enfasi posta sulla competenza ha prodotto almeno due principali conseguenze. 

La prima riguarda una concezione del sapere intrecciata con il suo impiego pratico: i saperi utili sono (sarebbero) più importanti dei saperi ai quali è improbabile collegare qualche conseguenza pratica. Di qui la convinzione che anche la scuola dovrebbe essere “utile” nel senso di “servire” a qualcosa, tesi inevitabilmente associata (invero un po’ banalmente, ma più le questioni sono complesse più si cercano scorciatoie semplificatrici) alla spendibilità pratica dello sforzo intellettuale. 

 

Studiare non servirebbe, detto in altro modo, se non si intravede un corrispettivo immediato, esigibile, concreto. Di qui la complessiva implicita svalutazione — credo sia nell’esperienza di molti docenti — dei saperi riflessivi e la sopravvalutazione di quelli pratico-empirici. La scuola perde inoltre la sua storica funzione di luogo di passaggio della memoria e della tradizione, immergendosi e confondendo con i problemi del quotidiano. 

Tende a sbiadire la convinzione che gli anni trascorsi a scuola siano non solo un necessario, ma anche un utile tirocinio di esercizio intellettuale indispensabile per la conquista dei significati personali. La semplificazione indotta dai mezzi tecnologici unita a un diffuso conformismo di stili di vita e di pensiero è, a sua volta, interattivo con la riduttiva concezione del sapere che avviene nella scuola della competenza. 

La seconda conseguenza riguarda la sopravvalutazione della dimensione cognitiva del soggetto che apprende se confrontato con altri aspetti della personalità del medesimo soggetto. Siamo proprio certi che la realizzazione della capacità di una persona si manifesti soltanto in quello che è capace di fare? Negli stessi ambienti della produzione ed economici si levano robuste le voci dei protagonisti più accorti a reclamare la formazione di giovani dal profilo non solo professionalmente competente, ma anche umanamente e socialmente ricco. 

Sono ben noti i richiami, per citare un solo esempio, di James J. Heckman sull’importanza delle non cognitive skills (motivazione, tenacia, perseveranza, affidabilità, auto-disciplina) nel successo delle persone e in funzione della loro felicità e la fallacia delle misurazioni standardizzate centrate sugli aspetti cognitivi. Al punto che proprio Heckman negli scritti più recenti è addirittura arrivato a parlare della necessità che la famiglia e la scuola, se vogliono assicurare un futuro sereno ai rispettivi figli ed allievi, si premurino di forgiarne il carattere e cioè un temperamento adatto a confrontarsi con le difficoltà della vita.  

In una società immersa nei beni materiali e senza memoria, percorsa da insicurezza e instabilità, frammentata in reti sociali sempre più piccole e fragili possiamo continuare a coltivare l’illusione che sia possibile puntare nella scuola sulla sola carta della competenza? Oppure occorre aggiornare al più presto i modelli teorici di riferimento, le mappe pedagogiche, ripensare le ragioni profonde dell’educazione scolastica, sganciandola dal principio di efficienza e restituendole la sua principale funzione: quella di innalzare il livello culturale e la consapevolezza etica dei suoi allievi?

(2 – fine. Leggi qui il primo articolo)