“Io sono supplenza”. Sì, “io non sono leggenda”: da due mesi nun famo artro che supplì. Didatticamente assurdo, umanamente avventuroso. Non sai a che ora entri e non sai a che ora esci: è di troppo avere un orario, è di troppo avere una classe, è di troppo sapere il giorno prima cosa devi fare il giorno dopo, ed è di troppo anche saperlo il giorno stesso. È di troppo anche avere uno stipendio, che intanto non arriva da settembre. Tendenzialmente non servi: per pura pietà promettono di inventarsi dei corsi qualsiasi in cui deportare qualche malcapitato alunno pur di tenerti occupato. Mentre «il mobbing» – Checco Zalone docet – «come mi rilassa!». Sei di troppo per gli alunni, con cui devi litigare almeno venti minuti all’inizio di ogni ora, perché non riescono proprio a credere che pretendi veramente di fare lezione, quasi sbarcassi da Marte e solo tu non fossi a conoscenza dell’inveterata usanza di rubare lo stipendio facendosi i fatti propri e beatamente ignorandoli mentre loro copiano sgranocchiano amoreggiano. 



Poi succede che reciti La sera del dì di festa e qualcuno si commuova fino alle lacrime. O che un’insegnante ti venga a cercare per dirti che è entrata nelle sue classi e li ha trovati colpiti, e vuole sapere chi sei tu, che sei riuscito a colpirli. Oppure una mattina trovi la scuola okkupata: inizia un dialogo surreale con gli okkupanti, dall’altra parte delle sbarre, che ti sfottono con un “lei cosa crede di cambiare con le sue supplenze?”. E a quel punto l’aiuto insperato ti arriva da un pluriripetente incappucciato steso sul cancello, che d’un tratto riemerge e fulmina l’amico in barese stretto: “lo sai cosa cambia quello? che quando è venuto in classe mia non volevo più alzarmi dalla sedia”. 



Cos’è questa mezza frase rispetto a tutti i problemi della scuola? Che peso ha la lettera di una ragazza che ti ringrazia di «mettere luce in questi giorni di scuola, che ai nostri occhi sono sempre tutti uguali»? Qualcosa di impalpabile, e quasi di invisibile. Non sposterà di un millimetro il dibattito pubblico né le riforme né tutta la baracca, e nemmeno la sua classe. Ma è l’unica cosa che conta: perché l’unica cosa che conta è quando si accende una scintilla. Solo da qui potrebbe ricominciare tutto (o potrebbe anche non ricominciare, ma è certo che da nessun altro punto potrebbe ricominciare): dalla scintilla per cui ti viene voglia di alzarti la mattina, per cui inizi ad amare quel posto altrimenti insopportabile. “E mo’ chi glielo dice?” mi bisbigliano sulle scale dopo una quinta ora. “A chi?” chiedo. “Agli altri professori. Loro la classe così in silenzio non l’hanno mai vista. Non ci crederebbero nemmeno”. Torni a casa senza un’unghia di orgoglio. Perché la mattina dopo, lo sai, devi ricominciare da zero. 



«Il lavoro del maestro è come quello della massaia, bisogna ogni mattina ricominciare daccapo: la materia, il concreto sfuggono da tutte le parti, sono un continuo miraggio che dà illusioni di perfezione. Lascio la sera i ragazzi in piena fase di ordine e volontà di sapere — partecipi, infervorati — e li trovo il giorno dopo ricaduti nella freddezza e nell’indifferenza»

Pasolini ha ragione: «per fare studiare i ragazzi volentieri, “entusiasmarli”, occorre ben altro che adottare un metodo più moderno e intelligente», perché bisogna tenere «conto in concreto delle contraddizioni, dell’irrazionale e del puro vivente che è in noi». Può educare solo «chi vive nel cerchio continuamente mobile dello spirito, gli occhi sempre puntati sul gioco della Provvidenza».

L’amore è uno spreco, e non può essere diversamente. Infatti i generosi si spompano, ricattati come sono dall’illusione delle ricompense. Non c’è insegnamento che non sia darsi in pasto, fregarsene del ritorno. «Anche perché sono tutti capaci a innamorarsi di un lavoro che si sa quanto renda; difficile è innamorarsi gratuitamente» (Cesare Pavese).

Qui infatti comincia quell’enorme questione che si chiama libertà. Perché quando entri in classe da supplente non hai nessuna arma: né autorità da ostentare né voti da mettere né credibilità da difendere. Sei nessuno, e puoi puntare soltanto sul fascino di quel che hai da dire e che sei. Che poi è la drammatica incarnazione dei due criteri con cui vorrei si valutassero gli insegnanti: 1. non vede l’ora che arrivi il lunedì o non vede l’ora che arrivi il sabato? 2. è in grado di farsi ascoltare da 25 ragazzi un sabato sera senza il ricatto del registro e dei voti e dell’autorità? Eccolo avverato, ecco che vai in classe nudo: la prima volta e ancor di più la seconda, quando lo stupore precedente è sfumato come zucchero a velo. E giochi ad alzare il tiro, come se potessi tirar fuori infiniti colpi dal cilindro, e colpi di tacco senza botte sugli stinchi: come se «si vivesse solo di inizi, di eccitazioni da prima volta, quando tutto ti sorprende e nulla ti appartiene ancora». Tu che appunto vuoi «costruire», come canta Niccolò Fabi, sai che alla lunga così non può funzionare, e giustamente ti lamenti di essere mandato come un agnello in mezzo ai lupi, e magari a chi esagera metti pure una nota. Poi torni a casa e c’è tua figlia che, anche lei, senza alcuna ragione, non ti dà retta: e cosa fai, le metti la nota? 

Ricominciare, ricominciare sempre. È «il potere dei senza potere», quello che non si fonda sulla titolarità di cattedra o sull’istituzione scuola: si fonda solo su di te. Te la giochi su quanto è più bello Dante rispetto al non fare niente, e stavolta non ci sono punti di vantaggio, non ci sono facce rispettose solo per finta: nessun filtro, al diavolo le ipocrisie svelate a ogni fine dell’anno, quando i ragazzi che fingevano un interesse finalmente stappano l’odio.

Ora lo scopri in diretta, non devi più aspettare giugno perché il cuore si mostri limpido come il volto. Te lo dicono in faccia, “non mi va”, “chi ti conosce?”, “chi crede di essere?”, “oggi non è cosa”. O nemmeno alzano lo sguardo, nemmeno si girano verso di te. E quanti insulti che ti prendi, secchi secchi, tu che ti ostini a far sentire Mozart a orecchie abituate a Lorenzo Fragola. 

Ma te la giochi, finalmente te la giochi. E lo vedi bene tutto quello che manca. Forse, supplendo supplendo, lo vedi più di tutti, quando pensi che sulla libertà pura, in effetti, non si può «costruire». Troppo fragile. Perché quell'”è passata un’ora e mi sono dimenticata di andare in bagno!” andrebbe sostenuto. È una misera scintilla, su cui soffierà tutto il mondo, già fra un secondo, ora dopo ora: ci vorrebbe un occhio che la noti, un muro che la ripari, delle ossa non rassegnate al solito gelo. Dai quasi ragione al grande inquisitore di Dostoevskij, che spiegava a Gesù che loro erano riusciti a fare di più per il cristianesimo di quanto avesse fatto Lui, fallito proprio per quanto ingenuamente aveva puntato sulla libertà. Quasi quasi te ne vai pure tu appresso alla musa ispiratrice di tutti gli insegnanti, la tata Lucia, quando gracchia che «ci vogliono delle regole!». Tutto giusto: rispetto dei ruoli, continuità didattica, fine della supplentite, orario stabilito. La scuola deve essere una scuola, certo. Ma la scuola non è più la scuola, facciamocene una ragione. Chi cerca di evitare il crollo e pontifica su quel che dovrebbe essere forse non si è reso conto che la scuola è già un Bataclan, un arco di Palmira, un cadavere col respiratore ancora attaccato.

È anche vero che, come diceva la volpe al piccolo principe, «se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… ci vogliono i riti». Non si può uscire da una classe con un generico “ci vediamo”, come un saluto di fine estate: bisogna sapere quando ci si vede. Perché è vero che a tua figlia non metti una nota, ma è anche vero che tua figlia è sicura che ti rivede, che c’è una casa. Ma quanti ne hai, davanti a te, che non si fidano neanche dei genitori? C’è da rifare la scuola, son da rifare le case, siamo in un tempo in cui c’è da rifare tutto, e forse non lo rifaremo. Ma abbaiare alla luna non è mai servito, e tutte le difese istituzionali non fanno che coprire il problema: che ora invece è scoperto, incandescente. Perché ricostruiremo sulle uniche fondamenta del fascino, che nessuno ti garantisce, e della libertà di dar retta a quel fascino, che nessuno ti garantisce. 

Noi non sappiamo se un giorno vedremo rinascere la scuola e la cultura e il liceo classico e le famiglie; oppure, più probabilmente, se le vedremo afflosciarsi ancora. Certo, noi saremo lì, perché «nel restare / dentro l’inferno con marmorea / volontà di capirlo, è da cercare / la salvezza. Una società / designata a perdersi è fatale / che si perda: una persona mai» (Pier Paolo Pasolini). Saremo lì, mentre tanti costruiscono castelli di sabbia o si lagnano della roccia che fu, a ricominciare in mezzo alle macerie, facendoci casa di quattro macerie. Saremo lì, in piena «selva oscura», fra molto più di tre fiere e troppe lampadine inutili, sparate sugli occhi di quei ragazzi, per non farteli vedere: saremo lì senza illuderci che la selva non sia oscura, ma offrendoci a quell’unico fra tanti abbagliati, quando ci sarà, che ci sussurrerà un «miserere di me». E lo dirà magari non nella continuità di un rapporto triennale, ma in quello spazio irripetibile — effimero ed eterno — della tua unica ora di supplenza.