Il dibattito in corso sulla “Buona Scuola” forse dovrebbe essere attraversato da qualche riflessione su un recente rapporto dell’Ocse sull’analfabetismo nel mondo che pone l’Italia all’ultimo posto, tra 24 paesi sviluppati, per competenze in lettura (literacy) e al penultimo per quelle in matematica (numeracy) e capacità di risolvere i problemi in ambiente molto tecnologici (problem solving). Gli italiani «funzionalmente analfabeti» in età fra i 16 e i 65 anni sarebbero il 47%. Negli Stati Uniti sono il 20%, in Svizzera il 15%, in Australia soltanto il 13%. Gli «analfabeti di ritorno» non sono anziani ultraottantenni, ma sempre più giovani in età post-scolare, spesso diplomati alle superiori, quasi tutti con alle spalle il ciclo completo della scuola dell’obbligo. Il linguista Tullio de Mauro, citando vari studi, concludeva che “nel 2008 soltanto il 20 % della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea”. Insomma, un Paese che non conosce più la propria lingua.



Prima imputata di tale débâcle è la scuola, rimasta l’unica agenzia educativa a parte la famiglia cui è affidato ormai tutto, in primo luogo la socializzazione, ma poi l’integrazione, la compensazione dei conflitti familiari, l’affiancamento alle crisi di crescita personale, la sperimentazione dell’universo. E infiniti altri compiti, spesso marginalizzando quelli basilari di insegnare a leggere, a scrivere e a fare di conto. 



La buona scuola italiana è stata sistematicamente terreno di conquista di numerosi politici di turno che, a volte per caso e senza alcuna competenza, hanno imposto riforme e controriforme che tanti danni hanno prodotto in termini di coerenza, continuità e sostenibilità dei processi didattico-educativi. Per tanti anni si è sostenuto che la nostra scuola primaria fosse un gioiello. Non poteva essere vero, anche questa andava demolita! La supremazia della cultura delle “superiori” non ha consentito lo sviluppo strategico di un curricolo verticale dell’obbligo scolastico e i vecchi impianti stereotipati sono restati immutati anche in presenza di significative innovazioni. Si è ragionato dall’alto verso il basso e invece era necessario il contrario. Avremmo una situazione molto diversa e migliore se per le giovani piantine (i bambini) fossero state adottate tecniche di allevamento atte a forgiarne la struttura produttiva. In nome di un buonismo diffuso e di una falsa interpretazione dell’inclusione, nella scuola del primo ciclo ormai si promuovono tutti, ma è educativa una scuola che promuove anche chi non ha dimostrato impegno e ha collezionato gravissime insufficienze? Anche il voto di condotta è stato abolito e le più elementari norme di educazione come il saluto, il rispetto nel linguaggio e nei gesti, il chiedere “per favore” e ringraziare stanno scomparendo dalla scuola. Non sono più di moda, ma indicano la decadenza, l’analfabetismo comportamentale della nostra società.



A questo indebolimento della scuola si è aggiunto negli ultimi tempi anche l’avvento del web e dei social network che stanno operando una profonda e forse irreversibile trasformazione logico-cognitiva del pensiero, dell’apprendimento, della stessa strutturazione razionale del ragionamento. La scuola si trova sovrastata dalla sfida titanica che internet pone allo sviluppo della mente umana, della sua formazione, della capacità di apprendimento e di elaborazione dei meccanismi logico-razionali, della maturazione di un’intelligenza critica e creativa. Infatti, i prodigiosi strumenti messi a disposizione dalla tecnica rischiano di far diminuire invece che aumentare il sapere della persona, perché ne atrofizzano le funzioni cerebrali avendo tutto a disposizione immediata su internet. Senza nemmeno bisogno di capire e selezionare, sviluppando capacità di scelta e di sintesi, perché ci pensano automaticamente i motori di ricerca. Non stupisce, quindi, che le statistiche raggruppino i giovani italiani in percentuali altissime di livello semi-analfabeta sollevando preoccupanti interrogativi sul futuro di una società che non sa più parlare. Ma, in compenso sa giostrarsi a ragnatela fra link infiniti, è interconnessa 24 ore al giorno, ha nello smartphone una protesi del corpo, che in molti casi finisce per sostituirsi all’organo in precedenza chiamato “cervello”.

Senza affidare alla scuola una missione salvifica dell’umanità, qualcosa essa lo può ancora fare. Ricordando a se stessa che la socializzazione è un pre-requisito, non il fine della scuola. La sua mission principale è alimentare il sapere, stimolare e costruire al meglio le facoltà cognitive, far sviluppare pensiero critico e creativo. Forse, allora, è il caso di cominciare a riconsiderare il ruolo che hanno la scrittura, la lettura, la memoria (che va educata), l’analisi logica, la capacità di stabilire connessioni di sapere, le famose «nozioni» che non sono altro che i mattoncini della conoscenza, di cui uno deve disporre per imparare a metterli in collegamento (competenze). E’ opportuno recuperare nella scuola primaria alcune buone prassi (dettato, pensierini, riassunto) con cui generazioni hanno appreso l’uso corretto della lingua italiana, della sua dizione e della sua grafia e hanno potuto sviluppare le abilità di selezionare le parole e sintetizzare le idee condensando fatti e situazioni ai nuclei fondamentali.

Va recuperato anche il ruolo della memoria (le poesie di una volta), non solo quella visiva, delle immagini, tipica della società digitale. Ma anche quella funzionale, che si sta atrofizzando in un’era in cui si ritiene tutto lo scibile disponibile a portata di clic, tanto che senza «clic» si è nudi, spersi, vuoti. Di fatto ignoranti, perché non si possiede nulla che non sia recuperabile in rete. Infine, favorire i processi didattici che permettono di ragionare, di collegare i dati a disposizione, di sottoporli a verifica e metterli in ordine dando ad essi la giusta attribuzione, per giungere alla conclusione, al risultato (analisi logica). 

Internet è un potente mezzo che mette a disposizione dell’uomo una quantità infinita di dati e di conoscenza, come mai generazione umana prima d’ora ha potuto avere. Come tutto il sapere però, richiede di essere compreso, vagliato, controllato, collegato, sottoposto a verifica logico-razionale. In una parola, non subìto passivamente, ma utilizzato criticamente da un cervello acceso, formato e sviluppato. Contribuire a questo è il primo compito della scuola. Non è poco. 

La legge di riforma della scuola non mi pare che sia ispirata a questo cambio di paradigma, se non marginalmente. E’ pur vero che la differenza la possono fare le “buone scuole” autonome.