Caro direttore,
recentemente una ragazza di 16 anni della mia città è morta in un incidente stradale mentre cercava, con l’amata sorella gemella ed alcuni amici, di vivere il più intensamente possibile la sua giovanissima esistenza. Data la sua notorietà tra i coetanei della zona, pur non essendo una studentessa della scuola presso cui insegno, il contraccolpo della sua morte sui miei studenti, soprattutto i più grandi, è stato potente e solo da poco accenna a scemare. Comunque questa morte sembra aver lasciato un segno sui volti dei ragazzi, una traccia, magari tenue ma reale — per molti, la prima — della serietà necessaria ad affrontare la vita; quella lealtà con le nostre esigenze più profonde che, anche per noi adulti, nasce e riparte continuamente in un momento preciso, a causa di un fatto che si è messo di traverso, a volte violentemente, allo scorrere spesso inconsapevole dei giorni.
E subito, già dalla prima ora di lezione dopo aver appreso del fatto, entrando in aula, di fronte ai quei volti insolitamente silenziosi e manifestamente desiderosi di un perché, ho avuto ancora una volta la coscienza chiarissima del senso della mia presenza nella scuola come insegnante di religione: sostenere quei cuori nella loro domanda, coltivare (cultura?) quel germoglio di umanità, “curare le rose” che Qualcuno mi ha affidato per la mia felicità, in tutti i modi e con tutti gli strumenti utili; ed assumere la responsabilità di proporre loro ciò che mi dà speranza nella vita.
Il primo di questi “strumenti” sono io stesso. Perché se tentassi di ripararmi dall’onda d’urto del fatto; se non facessi per primo i conti con quell’iniziale senso di sgomento che ti prende quando sai di una bellissima ragazza di 16 anni che potrebbe essere una di loro lì davanti o tua figlia; se non mi coinvolgessi come essere-con-loro-nel-mondo che verifica la propria fede al cospetto della realtà, fiducioso che un motivo per vivere e morire c’è ma consapevole anche che non può rimanere scritto sui libri e può, e deve, diventare per me e per loro carne, presenza, a che servirebbe veramente insegnare non questa materia, ma qualunque altra?
E poi, sempre insieme, aiutarci a (ri)scoprire che non siamo soli in questa ricerca, che tutti gli uomini prima di loro e accanto a loro — proprio in quello che studiano addirittura — si sono cimentati con queste domande e continuano a farlo; e rendersi conto, usando al massimo la ragione quindi, che malgrado la differenza delle risposte — che pure va indagata per non tralasciare niente, nessuna possibilità, perché il gioco è serio — c’è una costante nell’uomo che consiste nella capacità di trascendere l’esistente invocando l’infinito (“Chiuso tra cose mortali…perché bramo Dio?”); e in questo consiste la statura e la natura specifica dell’umano che il genio di tutti i tempi ha saputo cogliere.
In questo sta, in fondo, la sostanza della scuola: “trasmettere alle nuove generazioni la ricchezza accumulata da un popolo, affinché ogni suo nuovo membro non debba rifare tutto il percorso da capo” (Julián Carrón). In questo cammino si scoprono dei grandi compagni di viaggio, degli amici veri, si capisce di essere parte di un’immensa compagnia umana e non ci si sente perdutamente soli.
E allora si comincia da Guccini, perché a me quando arriva la notizia di una giovane che muore in quel modo, viene subito in mente “Canzone per un’amica”, poi Leopardi, Pavese, Ungaretti, Kafka e tanti altri; e l’arte, Van Gogh e le sue lettere; e la grande musica di Chopin e poi ancora Platone e la sua ipotesi di una rivelazione divina. Arrivando al testo biblico, Abramo, la sua ricerca di senso e il suo cammino di fede, gli scritti sapienziali, che sono molto apprezzati dai ragazzi per la loro radicalità, i profeti e la prefigurazione dell’avvenimento di Cristo. Infine Gesù, la Misericordia di Dio fatta carne, per loro, per me, per liberarci da questo “laccio” mortale; e la Chiesa che lo rende presente oggi, ancora, per noi. E cercare quindi testimonianze e tracce dell’Eterno nel presente, per avere una speranza fondata che non si finisca tutti nel nulla.
Non so se da tutto questo emerge lo statuto “epistemologico e didattico-educativo” dell’Irc che qualcuno esige e se sia sufficiente a giustificare l’esistenza di questa materia nella scuola italiana e il mio stipendio. Non so neanche in che percentuale i miei studenti rammenteranno quanto studiato sull’origine della Bibbia o sui dogmi cattolici e sulla storia della Chiesa. A me sembra solo, per come vedo i miei ragazzi impegnarsi, chi più chi meno certo, con quello che propongo loro e per i risultati valutati, che questa disciplina, se parte dalla loro umanità e non dall’astratta ripetizione di una dottrina incrostata, sia non solo un punto di incontro con la “tradizione” intesa in senso vivo, ma anche una seria possibilità di verifica personale di quella tradizione come punto di paragone del proprio cuore.
I miei alunni potranno anche non ricordare nel tempo quando e dove è stato scritto il vangelo di Giovanni, pazienza; ma non ne dimenticheranno facilmente l’undicesimo capitolo letto in questi giorni di tristezza e domanda, se hanno intravisto in esso una speranza per la vita.