Dopo D’Avenia, Nembrini. Cambiano i toni, non la sostanza. Reduce dalle registrazioni di Nel mezzo del cammin per TV2000, Franco Nembrini trova una sera per rispondere a un’altra raffica di domande nient’affatto banali, che i genitori de La Zolla hanno posto per aiutarsi a capire che cosa vuol dire educare oggi, e come scuola e famiglia si possono sostenere in questo, che è il compito della vita.
Pronti, via, si va subito al cuore della questione: «qual è la sfida educativa sulla quale scuola e famiglia sono innanzitutto chiamate?». «Il segreto dell’educazione — Nembrini spiazza subito — è non avere il problema di educare». Nel senso che l’educazione — chiarisce — non è un’azione specifica, un’attività che uno compie nel momento in cui si pone lo scopo di trasmettere contenuti o valori ai figli o agli alunni. L’educazione avviene sempre, che ne siamo consapevoli o meno. «I figli fanno sempre il loro mestiere, e lo fanno bene: i figli ci guardano. Ci guardano sempre; e vedono che concezione, che sentimento abbiamo della vita. Su questo non si può barare. Lessi tanto tempo fa uno studio scientifico che affermava come un bimbo che cresce nel ventre di una mamma contenta della vita — una mamma che canta, che è lieta di quel che vive — ha molte più probabilità di sviluppare un sentimento positivo nei confronti della vita di uno che si forma nel seno di una donna scontenta, irosa, risentita. Non è che quelle donne abbiano il problema di educare i figli: è che, semplicemente, i figli letteralmente respirano il sentimento che della vita hanno gli adulti che stanno loro intorno. Allora la domanda vera non è “Come si fa a educare?”, ma “Chi sono io? Che sentimento ho io della vita?”. Quando ero ragazzo — quarto di dieci figli, famiglia contadina, sempre pieni di debiti — io guardavo mio padre — bidello, malato a lungo della sclerosi multipla che lo ha portato alla tomba — e mi dicevo: “Che grande uomo mio padre! Io da grande voglio essere come lui”. Lui non ha mai avuto il problema di educarci, di farci tanti discorsi (con dieci figli, pensate!); ma io lo vedevo vivere e respiravo una concezione della vita che mi affascinava. Questa, se devo sintetizzare, è la sfida che abbiamo davanti: che vita viviamo noi? Perché i nostri figli dovrebbero seguire quel chiediamo loro? Che cosa testimoniamo loro di bello, di buono, di grande? Perché l’educazione, ridotta all’osso, è sempre una testimonianza: guardar la vita con un entusiasmo tale che i figli si incuriosiscano: da dove viene il tuo entusiasmo?».
Ma come si fa a vivere così? Lo chiede drammaticamente un’altra domanda: «Dalle scuole medie fino alle superiori sono cresciuta sentendomi dire sempre la solita frase: “potresti dare di più, si sei intelligente ma non ti applichi, se studiassi di più avresti risultati migliori…”, e più me la dicevano più mi sentivo schiacciata, perché io ero quella cosa lì, quella decisione lì di esserci fino ad un certo punto. Ora sono mamma e l’anno scorso al ritiro delle pagelle di mia figlia che allora era in prima media, mi trovai a fissare quei voti e a dire ai prof quelle stesse frasi che mi avevano mortificata anni prima. La loro reazione mi spiazzò: mi fulminarono con lo sguardo e mi dissero che quella frase non aveva senso, e che loro erano contenti di mia figlia e che la stavano aspettando. Loro stavano aspettando che lei tirasse fuori tutto quello che aveva dentro e che per questo ci voleva tempo e pazienza. E loro erano certi, credevano in lei senza aspettarsi che questa esplosione avvenisse subito. Anche ora continuano a guardare mia figlia così, continuano a chiederle tutto ma attendendo pazientemente. Io non riesco!!! quando la vedo perdere tempo, quando la vedo accontentarsi di voti bassi perché anche questa volta si è parata il sedere con poco, quando la vedo muoversi così vorrei chiuderla in camera e legarla alla sedia! Ma capisco che non serve. Perché lei è di più di quello che penso e vedo io. Lo capisco ma mi sembra una presa in giro…».
«I giovani sono sempre uguali. Come ha ricordato Benedetto XVI in un memorabile intervento a un convegno sull’educazione della diocesi di Roma nel 2008, i figli vengono al mondo fatti come si deve, perché il loro cuore l’ha fatto Dio, a quelli di oggi come a quelli delle generazioni precedenti: tutti hanno lo stesso desiderio di bene, di bello, di vero. Qual è la differenza che vedo montare drammaticamente oggi? I ragazzi di oggi soffrono, soffrono tantissimo, perché crescono con la sensazione di non andare mai bene. Non vanno bene ai genitori, agli insegnanti, agli allenatori, ai preti… non vanno mai bene a nessuno. È una generazione di orfani: orfani di speranza, orfani di felicità, di bene. Che cosa vuol dire “voler bene”? Ce lo insegna la storia cristiana: “Dio è morto per noi, mentre eravamo ancora peccatori”. Non “io ti vorrei bene, se tu fossi un po’ più ubbidiente, ordinato, studioso…”, no: “io ti voglio bene adesso, così come sei”. L’educazione comincia sempre solo così: come un atto di misericordia: educare è l’affermazione del valore dell’altro, a prescindere.
Tutti noi siamo diventati grandi perché qualcuno ci ha guardato e ci ha voluto bene prima che ce lo meritassimo; perché il suo sguardo diceva: “Io mi compiaccio non di quello che sei, ma perché ci sei”. Questo è il segreto dell’educazione. Ma per avere questo sentimento nei confronti dei figli bisogna averlo per sé: o lo vivi o non lo vivi, non te lo puoi inventare. Perché un figlio ci sfida, ci mette alla prova? Perché ha assolutamente bisogno di sapere se suo padre e sua madre hanno ragioni sufficienti per essere felici. L’equivoco più grande è mettere la nostra felicità nei figli, nel successo dei figli: così li soffochiamo, mettiamo sulle loro spalle un peso che non possono portare, li schiaccia. I nostri figli hanno diritto a un padre e a una madre che hanno una ragione di felicità più grande di loro, dei loro sì e dei loro no, dei loro successi e dei loro insuccessi. Per questo ci mettono alla prova: perché hanno bisogno di sapere che noi reggiamo».
Si va verso la conclusione, emerge l’ultima questione: in tutto questo, come aiutarsi fra scuola e famiglia? Ancora una volta, Nembrini spiazza: «C’è un modo di concepire l’alleanza educativa che è terribile: identificare il valore del figlio con il voto. È terribile, e universalmente diffuso: stimiamo i nostri figli unicamente in funzione dei risultati scolastici. E a quelli sacrifichiamo tutto il resto. Se li misuriamo col metro del successo scolastico — e poi, crescendo, del successo economico, per cui vanno bene solo le scuole che portano a professioni di successo — li abbiamo già ammazzati. Perché abbiamo soffocato il desiderio di bene che li fa uomini. Mentre è il contrario, come in tutte le cose della vita: solo la felicità permette di vivere bene. Solo se aiutiamo i nostri figli a essere contenti, se li sosteniamo con uno sguardo buono, se vedono che noi abbiamo una speranza grande, grande abbastanza da reggere anche la fatica dello studio, allora possono anche mettersi a studiare. Allora tutta la ragion d’essere di una scuola come La Zolla, e di tante scuole come questa, è esattamente sostenersi nel guardare gli alunni e i figli come abbiamo detto stasera. Allora il titolare della proposta educativa, che è il gestore col suo corpo docente, deve condurre sistematicamente un dibattito serratissimo con le famiglie, per aiutarsi e correggersi nell’individuare e perseguire tutte le conseguenze, culturali, pedagogiche, eccetera, di quel che abbiamo detto. Il valore di scuole così è esattamente questo: che usano gli strumenti che hanno — le materie, i voti (perché sono strumenti, non scopo) — per coltivare la libertà degli allievi e per vivere l’educazione come misericordia. E perché scuole così vivano, perché i nostri figli possano frequentare scuole così, vale la pena fare qualunque sacrificio, vale la pena spendere la vita». C’è da lavorare per tutti.