GAINESVILLE, Florida — Acutamente la professoressa Paggi discute l’affermazione del Piano Nazionale Scuola Digitale, secondo cui la “nuova” scuola diventa “spazio aperto” e “piattaforma”. Gli americani non sono stupidi. O meglio, sono esseri umani, e in quanto tali hanno sempre bisogno di una ragione, almeno, per fare qualcosa. Qualche settimana fa ero in università con una mia collega (sono in Graduate School, ora) e le ho proposto di fermarci a prendere qualcosa da mangiare prima di sedere per tre ore ad una lezione di greco. Io ho preso un caffè e un cookie, lei un pompelmo. Lei deve aver intercettato una certa curiosità nei miei occhi, per cui si è subito giustificata: “Il pompelmo contiene vitamine che sono ottime per combattere lo stress. È un po’ aspro, ma fa bene alla tua salute”. In classe, un’altra collega aspettava il professore sorseggiando, da una lattina da mezzo litro, dell’acqua di cocco. Stessa scena, simile giustificazione salutista. L’aneddoto vorrebbe dare un’idea di quanto sia pervasiva una cultura di massa che attinge a ricerche scientifiche, o presunte tali, per giustificare un atteggiamento quotidiano. Che c’entra il pompelmo e l’acqua di cocco con la tecnologia a scuola? C’entra, eccome.
Chi ha visitato o ha vissuto negli Stati Uniti sa che il junk food, cibo-spazzatura, è parte essenziale della dieta di questo popolo. Ora, invece di cercare di mutare queste abitudini alimentari (che producono anche un notevole introito economico), si aggiunge un prodotto che si presume salutare, offrendo garanzie scientifiche per la sua efficacia (le quali producono introiti per i ricercatori e per le case produttrici di tali prodotti). Allo stesso modo, a una scuola che per molte ragioni sembra non funzionare (e questo forse vale su entrambe le sponde dell’Oceano), invece che offrire una riflessione profonda su tali ragioni, si aggiunge uno strumento, potentissimo, che ricerche scientifico-accademiche proclamano come “il grande risolutore”. Mangia un hamburger con patatine fritte a pranzo, bevi acqua di cocco al pomeriggio e la tua salute sarà preservata. Vai in una scuola che non ha idea di che cosa ti deve insegnare o perché lo deve fare, lo fai con un computer o un tablet, e torni a casa contento, con l’impressione di aver imparato qualcosa, che hai prudentemente immagazzinato sulla nuvola.
La scuola come spazio aperto e piattaforma in America ha preso, attraverso queste ricerche accademiche, la forma di una nuova parola d’ordine: flip the classroom! Ora, “flippare” è l’azione che si fa con l’hamburger (ancora lui!) sulla griglia. Cosa vuol dire farlo con una classe? Invece di insegnare il contenuto in classe e darlo da studiare a casa, l’insegnante deve dare istruzioni in classe su come usare gli strumenti tecnologici per “ricercare” il contenuto di studio a casa, cosicché gli studenti possano tornare a scuola il giorno dopo ed essere sottoposti alla verifica da parte dell’insegnante del contenuto ricercato, imparato o praticato.
La classe può essere “flippata” anche all’interno della stessa ora di lezione: l’insegnante entra, dà un prompt, uno stimolo, e fa lavorare gli studenti. La giustificazione scientifica è che i ragazzi di oggi non sono capaci di mantenere l’attenzione oltre i primi dieci minuti di lezione. In quei dieci minuti, quindi, si decide il successo della lezione. Se si riescono a fornire tutte le istruzioni in quel lasso di tempo, lo studente avrà successo nel realizzare l’obiettivo che gli è stato prefissato, altrimenti l’insegnante è destinato a fallire.
Ammetto che non ho mai trovato abbastanza buona volontà per leggermi la sterminata letteratura scientifica che è stata prodotta negli ultimi anni su questi argomenti. Forse, oltre che la buona volontà, è mancato anche l’interesse. Le volte che sono stato esposto a queste teorie è stato durante i numerosi professional developments a cui, come insegnanti, siamo tenuti ad andare e che, la maggior parte delle volte, hanno come contenuto l’integrazione della tecnologia nella didattica. La cosa che salta all’occhio è che molto spesso gli speakers di queste conferenze a cui partecipano centinaia di professori non sono insegnanti. Sono esperti di informatica o accademici dei vari College of Education. L’esito è un elenco di app e software che “semplificano il lavoro dell’insegnante” e di fronte al quale l’insegnante medio realizza immediatamente che non ha tempo da dedicare allo sviluppo delle sue care lezioni con quelle tecnologie; oppure teorie cognitive così astratte o complesse che faticano a connettersi con il ragazzo concreto che il giorno dopo l’insegnante incontra in classe.
E allora? Grazie al cielo, passata la retorica del marketing di amministrazioni e genitori e i proclami trionfalistici di informatici e accademici, la vita quotidiana, day in day out, degli insegnanti e dei loro studenti è molto più semplice, e molto più legata a quel sostantivo — scuola — che ha la sostanza e il sapore del sapere, non dell’acqua di cocco.
(3 – continua)