Ultima ora dell’ultimo giorno prima delle vacanze di Natale, prima liceo linguistico, lezione di latino. La campanella sta per suonare quando compare un ex allievo, primo anno di università, classico finito a luglio. “Al linguistico ormai fanno latino solo due ore al biennio, vero prof? E’ pochissimo, però qualche autore glielo faccia vedere, almeno Orazio!”. Sono sbigottita: quello che ho di fronte, allegro e pieno di vita, non è un secchione iscritto a lettere classiche.



Per farlo studiare si sono sudate sette camicie, ed oggi fa tutt’altro! Orazio? Gli importa di Orazio?

“Se non fosse stato per lui, non avremmo mai scoperto Dante”. “Era un professore di lettere, la personificazione del Professore di Lettere”. “La sua frase ricorrente? Bisogna studiare, anzi stu-dia-re!”. Adesso sono in un istituto tecnico della mia provincia, i ragazzi che si avvicendano ricordano il loro insegnante morto improvvisamente la scorsa estate. Io ci sono perché era un mio amico ai tempi del liceo, quando militava in Lotta continua, e il collega di religione ha letto un ricordo così bello che me lo sono fatto dare. Ma anche altri colleghi sono miei amici. Una collega di lettere, frizzante e creativa quant’altre mai, mi racconta. “Io ho sempre messo in piedi tanti progetti, sai che mi piace, e lui veniva a vedere. Una volta mi ha detto: Brava, fai bene. Ma io no, io preferisco stare sul pezzo”. 



Se dovessi dire che cosa mi ha interpellato, in questo anno scolastico, ebbene, sono i fatterelli che ho raccontato ed altri simili. La cultura che “oggi non passa più” e che invece, sorpresa! passa, anche se non pareva. Il professore che ha trascorso la vita a mettere sotto gli occhi, a far entrare nelle orecchie e nelle menti di studenti recalcitranti la bellezza e la grandezza che hanno il diritto di ereditare, perché lui conosce la loro misura umana, a loro ancora ignota. Che lo fa senza sconti sulla fatica, perché Dante non ti si schiude, nemmeno un po’, se non hai capito che “la tabella dei verbi si deve stu-dia-re”. E che per questo, per questo, è amato e rimpianto, è stato un modello e una guida.



Osservazioni aneddotiche, a forte rischio di melensaggine, ne convengo. A ben altre “sfide” (ringrazio l’ultimo scritto di Giulio Ferroni per aver registrato l’inflazione del termine con le relative ricadute psicologiche) è chiamata oggi la scuola, così si dice, ed esse si raccolgono con strumenti macchinosi, Pof annuali e triennali, Piani di miglioramento, Rapporti di autovalutazione… tutti aggeggi che occorre “implementare”… 

Sono inutili? Non mi azzarderei mai a dirlo, anzi spero sinceramente che tra qualche anno contempleremo commossi l’avanzamento da essi prodotto, quantunque, a questo punto, non sappia ben dire su che strada. Penso inoltre che siano, almeno in qualche misura, indispensabili: istituti complessi, con pluralità di indirizzi, richieste, anche ministeriali, sempre più numerose e diversificate sui fronti della cittadinanza, del benessere, dell’inclusione, dell’apprendimento delle lingue, generano tassi elevatissimi di entropia. 

Ovvio che la macchina organizzativa si complichi e si appesantisca a sua volta. Ovvio anche che si debba accertare se i vari piani sono stati “implementati” a dovere, ossia se si è fatto ciò che si è promesso. Ovvio infine che il responsabile di tutto ciò, il dirigente scolastico, non possa affidarsi, per mandare avanti la baracca, a osservazione frammentarie, a sfumature impalpabili, ma punti ad avere riscontri oggettivi: quanti promossi? quanti bocciati? quante classi fanno il Clil? che hanno fatto le seconde per il “benessere”? quanti prendono le certificazioni di lingua straniera? qual è il risultato delle prove comuni? come siamo andati nei test Invalsi?

Ecco, tutto questo è importante, lo ammetto. Ammiro la dedizione dei colleghi che se ne interessano e credo che dovrebbe essere adeguatamente remunerata.

Ma non è il mio mestiere. Anch’io preferisco “stare sul pezzo”.

In ogni famiglia, sia pur piccola, bisogna fare conti, rispettare scadenze, organizzare qualcosa. Non sempre il nesso tra queste incombenze e la funzione specifica della famiglia è trasparente, tuttavia l’onere non è così pesante, un po’ per ciascuno e tutto è risolto in fretta. E’ anche chiaro che dove questi aspetti vengono trascurati o, peggio, ignorati, si va a fondo. Se però diventano così complessi e pesanti da assorbire il grosso delle energie, che succede? Si va a fondo lo stesso, no? Ecco, le mastodontiche realtà, alveari sempre ronzanti, che oggi chiamiamo scuole, proprio in quanto sono state volute così, mastodontiche e ronzanti, hanno bisogno di grandi energie convogliate nell’organizzazione e nel controllo. Giusto. Ma la scuola è un’altra cosa.