Sono ormai ben note le recenti affermazioni del magistrato Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione che, in occasione di un convegno dei responsabili amministrativi delle università, svoltosi a Firenze, ha dichiarato: “C’è un grande collegamento, enorme, tra fuga di cervelli e corruzione (…) Siamo subissati di segnalazioni su questioni universitarie, soprattutto sui concorsi” con cui vengono distribuiti cattedre e incarichi. 



E’ questo certamente un aspetto critico e ben noto da tempo, specie a chi lavora in università. Il nostro, però, si limita ad affermazioni generiche, senza fornire alcun dato (tra l’altro, sarebbe interessante confrontare la dimensione attuale del fenomeno rispetto al passato). Soprattutto, si parla di “segnalazioni”, senza specificare se si faccia riferimento a fatti accertati o meno. A chi è chiamato a svolgere delicati compiti istituzionali non si addice tanta superficialità e approssimazione.



Le affermazioni del magistrato Cantone hanno avuto inevitabilmente un ampio impatto sui media. E’ importante fare alcune precisazioni. 

Innanzitutto, come ha giustamente evidenziato in una recente intervista Pietro Ichino, è improprio parlare di corruzione in questo caso: “la corruzione è un reato, contro i reati ci vogliono i carabinieri e le manette e ci vuole un giudice che accerta un reato. Nella stragrande maggioranza dei casi, io non vedo il fenomeno di corruzione volgare che vediamo nel resto dell’amministrazione (…) Quello dei concorsi universitari è un metodo di reclutamento che contribuisce alle non brillanti performance del nostro sistema universitario. Il concorso garantisce una regolarità formale, ma non garantisce in alcun modo che venga privilegiato il merito e la verità utilità per la didattica e la ricerca nell’università”. 



Il problema è infatti decisamente culturale, e non si può affrontare cercando di costruire  il sistema di reclutamento perfetto, che impedisca ex-ante di poter sbagliare, come hanno preteso i ministri che, negli ultimi anni,  si sono succeduti alla guida dell’università. 

“Non è neanche pensabile — continua Ichino — che alla valutazione dei professori della facoltà si sostituisca né un sistema automatico, né il giudice”. Il problema è, al contrario, quello di costruire un sistema basato su principi di responsabilità, che premi le scelte virtuose e penalizzi fortemente quelle sbagliate. Al di là di tutto — nell’università come nella sanità, ad esempio — gli effetti delle scelte sbagliate continuano a ricadere sempre sul sistema e non su chi ne porta le responsabilità decisionali. 

Il secondo punto delle affermazioni del magistrato Cantone riguarda il “grande collegamento” fra “corruzione” e  fuga dei cervelli, che indurrebbe a ritenere che la “corruzione” sia l’unica causa della fuga dei cervelli dall’Italia. Come sa bene chi lavora ed opera in università, questa è una componente, ma non è certo la causa principale: essa risiede invece nella continua diminuzione degli investimenti destinati al sistema universitario, che rende gli ambienti e le condizioni di lavoro sempre più difficili. Se l’Italia non riesce ad attrarre ricercatori dall’estero, ci deve essere un motivo.  

Chi scrive ha cercato di attrarre ricercatori dall’estero, attraverso borse per assegni di ricerca, ma — nonostante il riconoscimento scientifico del gruppo di ricerca — i potenziali interessati hanno preferito trasferirsi in dipartimenti in altri paesi, proprio per le migliori condizioni di lavoro, non ultimo la maggiore disponibilità di fondi e il minore appesantimento burocratico.

Nel contempo, proprio per la mancanza di fondi per la ricerca, si è spesso costretti a incoraggiare la “fuga” all’estero di giovani e brillanti studiosi, che avrebbero voluto continuare le proprie ricerche in Italia. Tanto per rendere l’idea, l’intero ammontare destinato nel 2015 a tutti i progetti di ricerca di interesse nazionale — i cosiddetti Prin, di durata triennale — è stato di poco meno di 92 milioni di euro, meno di un terzo del finanziamento del bonus cultura una-tantum destinato quest’anno ai diciottenni, pari a 290 milioni di euro. 

Gli effetti del disinvestimento sull’università hanno avuto e hanno effetti anche sul fronte della formazione superiore. Infatti, anche nel 2015 l’Italia è all’ultimo posto in Europa per la percentuale di laureati di età 30-34 anni: nell’area Ue la media di laureati in quella fascia è del 37,8%, in aumento per tutti i Paesi; l’Italia è ferma al 25,3%, contro il 50% e oltre in Svezia, Lussemburgo, Irlanda, Cipro, e Lituania. Inevitabilmente, questo si ripercuote sulla capacità di innovazione del paese: è solo dall’investimento in capitale umano — il vero motore dello sviluppo — che possono arrivare energie, linfa e idee per l’innovazione e la crescita del paese. 

Ci si augura che le affermazioni del magistrato Cantone, con la conseguente campagna mediatica che ne è seguita, non siano l’occasione per un’ulteriore mortificazione del sistema universitario. Purtroppo, i segnali non lasciano ben sperare, stando ad alcuni “rumors”. Le scelte di questo governo, confermando le politiche di quelli che lo hanno preceduto nel recente passato, vanno nella direzione di “concentrare sempre più le risorse solo in 4-5 atenei di eccellenza al fine di far crescere l’industria 4.0”, come ha sostenuto recentemente il ministro Calenda a Cernobbio ai primi di settembre. Proprio perché non si va alla radice del problema, si perpetuano scelte che, se non contrastate, condurranno il nostro paese verso un inesorabile declino. 

Casualmente, proprio qualche giorno dopo, l’Istat rilevava che per la prima volta dal 1945 il numero di laureati disponibili per le imprese sta smettendo di crescere. Ma di questo, come del futuro che (non) stiamo costruendo, si parla sui media solo per un giorno. “Un politico guarda alle prossime elezioni; uno statista guarda alla prossima generazione. Un politico pensa al successo del suo partito; lo statista a quello del suo paese” (James Freeman Clarke).