Caro direttore,

Mi chiamo Achille, ho 45 anni e due figli, di 9 e 5 anni. Giovedì 6 ottobre mia moglie mi ha invitato a un incontro proposto dalla scuola che frequentano i nostri figli, La Zolla di Milano, sul tema: “In te c’è più di quanto tu creda. Alla scoperta di quello che fa diventare davvero grandi”. Cosa significa che una scuola deve educare, insieme ad istruire? Questa domanda — posta a Giorgio Vittadini, professore di statistica e relatore dell’incontro, da Roberto Persico, coordinatore didattico della Zolla — ha sollecitato in me un’intuizione: non c’è paragone tra il compito di mantenere i figli, tradizionalmente affidato ai padri, e quello di educarli, tradizionalmente affidato alle madri.



Cosa significa tirar grandi i nostri figli, farli diventare uomini, crescerli persone? Per rispondere a tale domanda, Vittadini ha citato James Heckman, che ha vinto il premio Nobel grazie ai suoi studi in econometria (una specie di somma di economia, matematica e statistica). Studiando che cosa fa aumentare la produttività, Heckman ha scoperto che chi produce di più non è genericamente chi sa di più, ma chi, oltre a sapere, ha un gran “character”: una personalità definita estroversa, amichevole, coscienziosa, curiosa e stabile (i cosiddetti “non cognitive skills”).



Come sottolineava Vittadini, si tratta di una scoperta tutt’altro che banale, perché mette in crisi l’intero sistema scolastico americano, basato sulla crescita standardizzata della conoscenza e che sta prendendo piede anche da noi (vedi i test Invalsi). Heckman ha dimostrato scientificamente che non basta formare i “cognitive skills”, ma anche i “non cognitive skills”: non basta più insegnare la matematica, ma anche, per esempio, la curiosità. In una parola, non basta istruire, bisogna anche educare. Gli stessi test Invalsi lo dimostrano: le scuole con più alto punteggio sono quelle che puntano a una proposta educativa completa.



Ma come si fa a formare un buon “character”? — mi domandavo intanto che Vittadini parlava; al termine dell’incontro è stato chiaro che protagonista indiscusso dell’educazione è la libertà, non solo di chi “subisce” l’educazione, ma anche di chi la “fornisce”. La personalità, cioè, cresce quando la libertà è sollecitata, è allenata, è oggetto di una proposta affascinante: capace di tirare fuori dall’educando, di far emergere quanto di grande già c’è in lui. Come Michelangelo con i Prigioni. È l’esatto contrario del nostro abituale tentativo di “riempire” i ragazzi con le nostre conoscenze. Anziché valorizzare la loro identità, imponiamo… noi stessi. Penso che ciò accada perché stare di fronte alla libertà di un figlio non è mica facile!

Guardare un figlio senza la pretesa che diventi ciò che io immagino e puntare sulla sua personalità, sulla sua libertà, accompagnarlo a scoprire il suo posto nel mondo, accettando anche gli sbagli, è una vertigine: bisogna fidarsi di lui, di un… bambino. Anche noi genitori dobbiamo avere un bel “character” per esserne capaci! Per quanto adulti e maturi, in realtà, anche noi genitori abbiamo bisogno di essere educati. Forse noi più di loro, perché come adulti pensiamo di non averne più bisogno. In effetti, per sviluppare i “non cognitive skills”, Vittadini sottolineava che Heckman ritiene fondamentale la presenza di un learning context, cioè proprio di una comunità educante. 

In definitiva, La Zolla è la scuola non solo dei miei figli, ma anche mia, che educa me. Da qui, una gratitudine infinita per la storia che l’ha originata, per gli uomini che l’hanno fondata e per quelli che oggi la continuano. Questa proposta educativa vale più di tutto, anche delle imperfezioni e chiede la responsabilità di essere sostenuta, perché rappresenta un bene non solo per la mia famiglia, ma anche un contributo al bene comune. Alla Zolla l’avevano capito 40 anni fa, prima di Heckman.