Qualche riflessione a “freddo” sulla scheda relativa all’Italia allegata all’ultimo rapporto “Uno sguardo sull’istruzione: indicatori dell’Ocse”, può essere utile per capire in quale situazione si trovi il nostro sistema di istruzione. Anche questa volta, insieme ai dati, gli analisti Ocse indicano alcune aree prioritarie di intervento indicate, forse non a caso, come sfide: invertire la tendenza negativa nel finanziamento dell’istruzione osservata negli ultimi anni, rinnovare il corpo docente attirando nuovi docenti più giovani e infine aumentare gli investimenti in programmi educativi che coinvolgano studenti con necessità didattiche diverse. Una misura che interessa il sistema in generale, una sui docenti e una indirizzata agli studenti.
I rapporti Ocse spesso non si sbilanciano troppo nelle loro osservazioni e critiche, ma questa volta alcuni dati sono così gravi da essere veramente sconfortanti. La diminuzione del 14% tra il 2008 e il 2013 della spesa per l’istruzione soprattutto se raffrontata con la diminuzione del 2% di altri settori della spesa pubblica italiana e con l’aumento della spesa pubblica e la spesa in istruzione di molti paesi Ocse fa veramente pensare a una scelta politica mirata dai contorni preoccupanti.
L’elenco dei paesi che sono stati più virtuosi è lunghissimo, diciamo che peggio di noi è riuscita a fare solo l’Ungheria. Solo 6 paesi su 26 analizzati hanno ridotto nello stesso periodo la spesa per l’istruzione e solo 4 su 26 anche la spesa pubblica complessiva. Noi abbiamo ridotto entrambe. Spesso si dice, anche per difendere i tagli alla spesa per l’istruzione, o per deviare le critiche, che non è questione di quanto si spende ma di come si spende. Questo è senz’altro vero, ma viene da chiedersi se per sapere come spendere i soldi non bisogna forse sapere quali siano i settori più in difficoltà. Darsi quindi delle priorità di sistema e un orizzonte limpido in cui queste priorità trovano un senso. Le ultime “performance” del Miur per applicare la legge 107 sul personale scolastico ad esempio non lasciano trasparire nulla di tutto ciò. Si naviga abbondantemente a vista in un mare incognito, anche per i tecnici del ministero, andando spesso a cozzare con la dura realtà. Il Miur di fatto non conosce, o non è interessato a conoscere, se stesso, condizione minima essenziale per rimodulare la spesa per l’istruzione.
Complice di questo è anche un deficit culturale nell’apprezzamento e capacità di rielaborazione dei dati di origine statistica che, se raccolti e utilizzati, potrebbero contribuire a formulare delle scelte più sensate a livello di sistema di quelle che invece spesso, nel nostro paese, vengono fatte, il più delle volte in seguito a spinte emotive o esigenze politico-giudiziarie. Con molta fatica il Servizio nazionale di valutazione (Snv) si sta facendo strada, ma ancora le analisi statistiche prodotte sono poco utilizzate (anche dalle singole scuole) e insufficienti per fornire un quadro esauriente.
E’ infatti soprattutto grazie ai rapporti degli organismi internazionali che abbiamo cominciato a sapere qualcosa di più sul nostro sistema scolastico, altrimenti brancoleremmo ancora nel buio. Ma forse possedere la forza dei dati fa molta paura perché costringe ad assumersi finalmente delle responsabilità e ad essere poi coerenti, e credo che sulla coerenza nelle scelte del nostro ministero non serva spendere nemmeno una parola.
Per quanto riguarda il corpo docente siamo il paese, su 37 analizzati, con la minor percentuale di docenti sotto i 30 anni (il rapporto tra percentuali con la media Ocse è di circa un quindicesimo e con la media Ue22 di circa un dodicesimo) e con la maggior percentuale di docenti ultra cinquantenni (circa il 40% del totale). Con questa distribuzione d’età, con una diminuzione dei salari del 7% (nel 2014 il salario di un insegnante con 15 anni di esperienza rappresentava solo il 93% del suo valore nel 2000) e con una distribuzione di genere assolutamente non equilibrata si invoca nel rapporto Ocse un rinnovamento della scuola italiana a partire dai nuovi concorsi svoltisi nel 2016, anche tenendo conto dell’apprezzamento per la professione insegnante da parte dei giovani italiani, forse attratti dalla contemporanea carenza di posti di lavoro in altri settori produttivi. A parte le difficoltà emerse per le nuove immissioni in ruolo dei docenti tramite concorso, di cui forse i ricercatori Ocse non sono pienamente a conoscenza, quello che in realtà sembra più attraente, oltre al posto fisso, è anche la possibilità di uno stile di vita più libero da impegni legati a un orario di lavoro definito e con la possibilità di gestire in modo “creativo” la propria attività professionale. Questo modello di insegnante, che in parte corrisponde alla realtà, è però in crisi in vari paesi industrializzati, stante la forte spinta alla burocratizzazione e alla rendicontazione delle proprie attività professionali. Se però si toglie da una parte, in termini di libertà di gestione della propria vita professionale e privata, si dovrebbe, ad esempio, dare in qualche modo da un’altra, in termini di retribuzioni, ed è normale che qui si inneschino le tensioni e le resistenze con la categoria dei docenti che, in questa fase di applicazione delle riforme, si vedono privare dell’ultima grande rendita di cui avevano potuto godere. Non basterà allora l’immissione di pochi giovani a far digerire complessivamente il carico di impegno obbligatorio richiesto alla categoria dopo anni di laissez-faire.
Gli investimenti in programmi educativi che coinvolgano studenti con necessità didattiche diverse riguardano vari categorie: immigrati, studenti lavoratori, Neet, adulti, studenti che cercano un’istruzione terziaria non necessariamente universitaria. In Italia abbiamo assistito in questi anni al fallimento della riforma universitaria del 3+2 in cui la laurea triennale non ha assolutamente dato impulso a una formazione maggiormente allineata con le esigenze del mondo produttivo.
I motivi sono molti ma due vanno sottolineati: l’incapacità dell’università di adeguare i curricoli oltre una loro semplice riduzione di contenuti e la scarsità di domanda da parte del mondo del lavoro di professionalità qualificate a livello di istruzione terziaria. Chi ha elevato know how deve troppe volte emigrare per spenderlo. Le rigidità del sistema di istruzione e la carenza di finanziamenti per borse di studio rendono la mobilità sociale più difficile in Italia che altrove e le diseguaglianze sociali tendono quindi a perpetuarsi (in certe aree della penisola più che in altre). Ecco che il problema dell’equità si affianca a quello della diversificazione dei percorsi di studio, ma il mondo del lavoro dovrà per forza fare la sua parte per mobilizzare le capacità presenti nelle giovani generazioni, soprattutto di immigrati, e per riconvertire le professionalità attraverso una nuova formazione degli adulti, perché la competizione globale non può giocarsi tutta a carico del rinnovamento del sistema di istruzione ma deve essere affrontata affiancandovi anche l’innovazione d’impresa in termini di nuova partecipazione ai processi formativi.
Liberare da lacci e lacciuoli burocratici le scuole e la formazione terziaria e dare maggiore autonomia nella gestione di quel poco di finanziamenti che vengono erogati, rinforzando la logica delle reti anche con le imprese, sarebbe già un bel passo avanti nella direzione auspicata dai ricercatori Ocse.