La polemica che si presenta a scadenze irregolari sul web e sulla stampa su compiti sì/compiti no nasce come polemica e muore come polemica; a riaccenderla provvedono interventi quali quelli recenti del papà che, assegnando al tempo libero del figlio il ruolo formativo, e negandolo alla scuola, non ha in realtà lanciato il J’accuse all’istituto dei compiti a casa, bensì a quello della scuola stessa. A chiudere la polemica, interviene regolarmente il sopravvenire di altre questioni scolastiche più spinose, di altri J’accuse. Con simili interventi, la polemica resta polemica, e difficilmente può diventare dibattito.



Voler portare l’annosa questione dei compiti a casa al livello di un dibattito ragionato comporta difficoltà  notevoli; innanzitutto la propensione del web ed anche di certa stampa a dare spazio alla notizia strillata, quale il padre accusatore di cui sopra, e in secondo luogo la complessità del problema, affrontato nella maggior parte dei casi a partire dal sintomo, il disagio di una certa fascia di studenti o, meglio, quello manifestato dai loro genitori alla prese con quanto assegnato ai figli, e pertanto “di pancia”, a partire dalla sensazione che qualcosa non funzioni se un figlio o una figlia rifiuta i compiti (caso estremo) o fatica a farli (caso più comune).



Che uno scolaro/a e i di lui/lei genitori affrontino il problema dei compiti a partire dal disagio variamente manifestato dal loro figlio/a è l’unica strada ovviamente a loro percorribile; tuttavia il “sintomo”, se persistente e tale da attirare attenzione, analogamente per quanto accade con i malesseri fisici dei figli, necessita di un “consulto specialistico”, vale a dire di essere comunicato al “medico”, nel caso specifico il maestro/docente che, tuttavia, è apparentemente la causa del sintomo stesso, perché è lui o lei che ha assegnato i compiti.



La comunicazione al docente può da tempo avvalersi di luoghi istituzionali, stabiliti per legge, sia in forma individuale, attraverso il colloquio con il docente, sia in forma collettiva, attraverso i consigli di classe aperti ai genitori, convocabili anche su richiesta dei genitori stessi. Il venir meno di un certo timore reverenziale verso la figura del docente ha anch’esso contribuito a democratizzare il processo, anzi, la tendenza attuale è più alla denuncia, al J’accuse di cui sopra, dove alla comunicazione si sostituisce la comunicazione: io padre comunico a te, scuola, quanto ho deciso relativamente ad un ambito che, in realtà, ricade nelle competenze e responsabilità del docente. Ma il caso della mamma che fa giocare la sua bambina delle elementari dopo otto ore di scuola, pur essendo un'”ingerenza” nell’ambito di competenza del docente, appare istintivamente legittima; il numero delle ore di scuola, la giovane età del discente, la scelta di spazio libero da riempire con gioco spontaneo (non con le mille attività scelte da un papà), l’assenza di una prosopea boriosa nella comunicazione della madre sono fattori che concorrono a renderne accettabile la scelta.

Tuttavia il problema rimane aperto, e non sanato, perché non vi è stata alcuna riflessione a priori nel soggetto (anzi, nei soggetti, perché a tutti i gradi di scolarizzazione i docenti sono sempre plurimi) che dei compiti a casa è il promotore. E’ a questo livello che il problema andrebbe affrontato, e non come fattore isolato, ma come elemento di una riflessione pedagogica e didattica globale. Un aspetto che mi ha sempre molto colpito, nel corso della nomale attività collegiale e in particolare in taluni colleghi, è sempre stata la capacità di ricondurre, e non artificiosamente, aspetti particolari della pratica didattica ad una concezione unitaria, se presente, o alla rilevazione della sua assenza. Quest’ultimo caso è di solito quello a cui imputare la maggior parte dei “disastri” rilevati, si tratti di casi singoli o di classi o addirittura corsi di studio nella loro totalità.  

Il fattore pertanto prioritario nell’affrontare la question dei compiti a casa è una riflessione didattico-disciplinare, che può, anzi, deve innanzitutto essere svolta a partire da una molteplicità di fattori, come l’età dei discenti, gli obiettivi formativi (quali competenze, quali conoscenze) individuati, le metodologie predisposte e i tempi della programmazione, personale e di classe, e con un criterio di uniformità didattica, riassumibile in un semplice motto: tale il lavoro in classe, tale il compito a casa.

I mal di pancia, reali e non simbolici, di studenti e genitori nascono invece proprio da una difformità fra quanto fatto in classe e quanto assegnato a casa; anche qui, tuttavia, la situazione è complessa. La progressiva perdita della capacità di attenzione dei discenti, a partire dalla fascia di età più precoce e non corretta dal sistema scuola nella crescita, fa sì che il modello didattico che la lezione propone come esperienza in atto non venga assimilato dal discente per cui, anche in presenza di un “compito” similare, questi non sia in grado di “capirlo”. E mancando al genitore l’esperienza della classe, se non come ricordo della sua, normalmente diversa in modi non percepibili a chi nella scuola non ha visto passare tutte le generazioni fra quel figlio e quel padre o madre, il genitore non sa come procedere, e ricorre a strategie compensative, se intelligente (telefona alla cugina, chiama in causa un altro figlio, o chiede l’intervento di un docente, soprattutto se magari è ancora al lavoro quando il figlio ha bisogno), o dispensative, se è arrogante, come il padre di cui sopra, o all’ultima spiaggia, come la cui di sopra madre.

Ma se al discente fosse reso impossibile subire l’imprinting positivo del suo maestro/docente, perché di tale imprinting non vi fosse traccia? E se il docente scegliesse esercizi ed attività da assegnare a casa che propongono modalità mai viste in classe? Ahimè, la difformità può essere grave e portare attività del tutto avulse da un qualsiasi riferimento ad una tassonomia degli obbiettivi cognitivi che, a qualunque livello di apprendimento, possono e devono spaziare da ricordare a creare.

 

 

Come può lo studente affrontare con successo la disparità fra una classe dove si applica una procedura (una regola) e un compito a casa dove dovrebbe valutare un prodotto, o addirittura produrne uno, o anche come può affrontare con gusto la disparità fra una classe dove ha compreso un meccanismo, ed un compito a casa dove la consegna valutativa è solo applicativa?

In entrambi i casi, il compito a casa è corpo estraneo all’esperienza di scuola fatta, qualunque essa sia, buona o cattiva, e viene espulso. Ma vista la persistenza di questa pratica didattica, l’espulsione può essere solo dispensativa, e tale da negare la natura della relazione didattica.

Una risoluzione del problema dei compiti non è quindi da attendersi dalle polemiche del web e della stampa, ma dalla riflessione pedagogica dei  docenti, ammesso che questi non scelgano di risolvere il problema assegnando una serie di esercizi dal libro di testo, ma in realtà delegando ad altri (gli autori dello stesso) la responsabilità di una programmazione che non può essere che del docente stesso. Ed, in tale caso, non verificando affatto la congruità fra lavoro mattutino e lavoro domestico, nella convinzione che “i compiti fanno sempre bene, perché almeno li fanno”.