Coglie di sorpresa il lettore Scuola di felicità (Mondadori, 2016, 183 pp.) di Gian Mario Villalta: dapprima, infatti, sembra un’invettiva satirica contro le derive della prassi scolastica: caccia alle iscrizioni, analisi sul consenso dell’utenza, onnipresenza dei progetti, collaborazione fra istituti ed enti del territorio, e, soprattutto, il nuovo ruolo del dirigente, il cosiddetto “Preside Manager” (e Villalta ci fa grazia di Pof, Ptof, del Pdm, e altre minacciose sigle). In Scuola di felicità il “Preside Manager” è rappresentato dalla professoressa Bardella, ex politica locale bella e decisa, decisa a trasformare l’istituto in una “Scuola della Felicità”, realizzata a partire da una elevazione spirituale, che parta da una elevazione al terzo piano dell’ufficio della Presidenza, e delle Funzioni superiori della scuola.
Scopo di tutto ciò è far fare alla scuola “un balzo in avanti per diventare un modello di innovazione”. Si delineano però fra gli studenti due fazioni: ad appoggiare il progetto è il gruppo dei modaioli di lusso, i Benesserini (detti anche i “Pretoriani della Dirigente”), contrapposti ai Marci: si profila una lotta tra fazioni, altro che Felicità. E l’io narrante, il “professore”, che fa? All’inizio osserva perplesso. In fondo, lui, a scuola potrebbe anche non venirci: da quando ha avuto una grossa eredità, ma, soprattutto, da quando è rimasto vedovo, sembra aver preso le distanze da tutto, pur non simpatizzando per queste novità calate dall’alto.
Ma sono così opposti i fronti nel liceo? Forse no, e un brano ce lo esemplifica a perfezione: la tensione nel liceo ha superato i livelli di guardia e il narratore raggiunge la Dirigente; dopo la breve discussione, la aiuta a infilare il soprabito: “un gesto quasi intimo” (p. 129), che, a un osservatore esterno, sembrerebbe una galanteria d’altri tempi. Perché i due non sono nemici, bensì, momentaneamente, su fronti diversi. Presto, infatti, Scuola di felicità svolta. In fondo, Benesserini e Marci ripropongono l’annoso dilemma: se la scuola non è un luogo separato dal resto del mondo, allora, questo legame con il “fuori”, come va inteso? Bisogna portare un po’ del mondo di fuori (esperienze di lavoro, questionari di soddisfazione, etc.) a scuola, o bisogna che la scuola contagi positivamente la società e le famiglie, che spesso, nulla sanno dei figli, come nel caso limite di Leonora, che scappa di casa senza che i genitori se ne accorgano?
Ben presto si scopre che l’antitesi alla Bardella non è rappresentata dal narratore, ma dall”Uomo del Pozzo”, un professore in pensione che rappresenta la tentazione che può scattare in alcuni insegnanti: contro il modello para-aziendalista, la facile e comoda gratificazione di usare il proprio carisma e la propria influenza sugli studenti per ergersi a Maestro.
Non più insegnante costretto dai tempi del programma, dalle verifiche, dalle scartoffie, dalla “vita carceraria delle aule”. Nel mezzo, fra questo e il modello para-aziendalista, c’è la fatica umile di chi cerca, faticosamente, tra “drammi personali e sciagure mondiali, morti, nascite, separazioni, nuovi amori e vecchie amicizie”, di mantenere una via mediana, senza voler fare il missionario, con onestà intellettuale, talora anche fallendo.
Ma la scuola, nota Villalta, che la conosce dal di dentro, ha una capacità spaventosa di assorbire, ammortizzare ogni novità, incassare ogni colpo: per quanto ci appaia sgangherata, sempre a rischio di collasso, ogni giorno alle otto, ricomincia sempre, col suo “esercito silenzioso che procede sostituendo ogni anno le perdite, ricompattando i reparti, difendendo il fronte incerto delle paure e delle aspirazioni di tutti”: questo, dice Villalta è il vero esercito degli immortali, allievi e insegnanti: gli uni passano e vanno, gli altri restano, sorta di ripetenti volontari, a sostenere il fronte della trasmissione della memoria, del sapere, e, sopratutto, ad alimentare questo desiderio.