Ho quasi quarant’anni. E gioco in porta in una squadra di calcio. Non sono Buffon, ma me la cavo, se ancora oggi sto in prima squadra e i ragazzini che si stanno allenando con me devono stare in panchina a guardarmi. Abbiamo finito da poco: il mio preparatore, dopo il riscaldamento con tutta la squadra, ci ha fatto morire su un angolo di campo che si è consumato, tanti erano i tuffi, i salti, i piegamenti. Prima a destra e senza pallone, poi a sinistra. Poi con il pallone. Poi in porta. Tutti i santi pomeriggi, ore e ore. La domenica, e sempre più spesso anche in settimana, la partita. Per cui sono pronto perché ho sudato ore e ore in allenamento. Quando torno a casa vado da mio figlio che ha tredici anni e fa la scuola media. Gli chiedo se ha fatto i compiti, se si è allenato per il suo di mestiere. Sì, mi dice, ho sudato più di te. Sono contento, gli dico, così magari diventi più bravo di me. 



Mi ha dato fastidio, un giorno, quando in un consiglio di classe un genitore chiedeva che i compiti non fossero più dati, che non servivano a niente, che non servivano alla vita. Mi ha dato fastidio che citasse addirittura degli psicologi, dei presidi, degli uomini e delle donne di scuola che, secondo lui, avallerebbero la sua istanza. Ma davvero c’è gente di scuola che crede che i compiti a casa non servano a nulla o, addirittura, sarebbero dannosi perché non c’entrano niente con la vita?



Poi ho visto che persino qui, su un giornale che di scuola si occupa sempre, qualcuno dice che la nostra scuola è considerato un “compitificio non centrato su compiti reali e significativi che sviluppano apprendimenti stabili e competenze spendibili”. Ho come l’impressione che sia partita la solita campagna, parole d’ordine che dovrebbero garantire soluzioni per tutti i mali della scuola. Si comincia a parlare di compiti di realtà che sarebbero in grado di stimolare i giovani “perché offrano prestazioni in situazioni problematiche e significative ponendo attenzione a contenuti, processi e abilità dei singoli. Lavorare per compiti di realtà significa farli lavorare in gruppo e a scuola, favorendo così la socializzazione, l’apprendimento cooperativo e per scoperta”. 



Io sono un portiere. Ma anche un padre. Sono uno di quelli con cui ripensare l’alleanza educativa tra scuola e famiglia. E mi raccontate banalità contraddittorie come queste? L’altro giorno mio figlio Edoardo, che fa la terza media, è tornato entusiasta da scuola. Perché, cos’hai fatto? Abbiamo ascoltato il professore leggere una storia. Non soltanto a noi, a tutte le terze della scuola. Ci legge un libro. E ogni volta ci dà un compito: è il libro che spiega noi, dice il prof. Non il contrario. E’ vero: un mio compagno in piedi in mezzo a centoventi ragazzi ha letto il suo tema. Il libro ci parlava di un ragazzo che era tutto rabbia e tristezza. E a noi il prof ha chiesto di scrivere quando ci siamo sentiti così l’ultima volta. Davide, il mio compagno, un duro, ha parlato della sua bocciatura, della fatica, delle lacrime che ha pianto. C’è stata una commozione generale, il prof l’ha quasi abbracciato, lui ha ringraziato perché il libro, quel libro su cui stavano anche facendo esercizi e fatica, gli aveva permesso di trovare le parole per raccontarsi, per dire il dolore e la rabbia.

Io ringrazio sempre perché Edoardo e i suoi compagni hanno ancora un professore così. Fanno l’analisi logica, quella del periodo, studiano Leopardi, Montale, Baudelaire, leggono Manzoni, Pasolini e Kent Haruf e arrivano fino alla poesia e alla narrativa contemporanea. Hanno letto, hanno imparato a fare riassunti, a fare commenti, ad analizzare il testo poetico e non c’è niente che abbiano fatto che non sia utile a stare dentro il mondo. Succede così anche per l’orientamento che oggi è la cosa che interessa di più Edoardo: letture, esercizi, compiti che servono per imparare ad avere un criterio, a potere timidamente affrontare un ragionamento, trovare e dare le ragioni per quello che si fa, che si sceglie. A scoprirsi e a raccontarsi. E per fare questi compiti ci vogliono tempo e fatica, ma sono quelli che consentono a mio figlio di crescere. 

E’ questa la scuola a cui dovremmo dire addio per abbracciare quella dei compiti di realtà, del lavoro di gruppo perché questi consentirebbero di acquisire competenze, di renderle stabili e spendibili? Ma perché, quello che fa il professore cos’è? Io faccio il portiere e posso provare a immaginare cosa potrebbero volere dire queste parole d’ordine: compito di realtà potrebbe essere una partitella tutti i giorni, così poi sono capace di affrontare la vera partita la domenica? Se non facessi gli esercizi che il mio preparatore mi fa fare ogni giorno, come potrei, al momento opportuno, nella realtà, appunto, tirare fuori lo scatto, il colpo di reni, il tuffo? Mica li coltivo facendo partitelle in cui magari mi arriva un tiro per tempo, no? Come potrebbe Edoardo trovarsi in mezzo a centoventi ragazzi e sapere ascoltare, capire, pensare, esporre, scrivere, se non avesse avuto il suo preparatore che ogni giorno gli dà la possibilità di costruire piano piano le sue abilità, le sue competenze, appunto? Cosa vuol dire compito di realtà e lavoro di gruppo? Che ogni giorno ci mettiamo in cerchio e discutiamo e così impariamo a pensare, a parlare e a scrivere? 

C’è un tempo per il lavoro individuale e l’esercizio e c’è un tempo per la realizzazione, individuale o di gruppo che sia. C’è un modo di acquisire competenze che non passi dall’acquisizione di contenuti, di metodi, di procedure? Che cosa c’è in gioco oggi nella scuola italiana, quando si parla di competenze e le si mette in contrasto con un modo di lavorare che ha finora costruito personalità piene di competenze e che d’un tratto si deve buttare via? E’ soltanto, ancora una volta, una questione di linguaggio? Diglielo te al pugile che sale sul ring di non allenarsi, di non saltare la corda in palestra, di non fare gli addominali, di non fare il sacco e il sacco piccolo per la velocità e il tempismo. Non c’è nessun gruppo, nessuno che si può mettere al suo posto: sarà solo sul ring, contro un altro che sarà solo contro di lui. E se non ha acquisito competenze va dritto per terra: c’è qualcuno che crede possibile acquisirle senza il lavoro, il sacrificio, la fatica, il compito? 

Caro Edoardo, stai in guardia, io non voglio che ti mettano sul ring per farti prendere cazzotti. Non voglio che ti mettano in porta per farti prendere gol. Continua a fare i compiti, continua a seguire il tuo professore. Prima che, per legge o per decreto, e con la malafede che circola nei corridoi e nelle stanze delle scuole italiane, tolgano di torno pure lui.