Il 7 ottobre 2015 si tenne al ministero dell’Istruzione una riunione con le associazioni professionali dei docenti e dirigenti scolastici (chi scrive era presente per Disal) dedicata al tema dell’inclusione. Era uno degli incontri preparatori all’esercizio delle deleghe previste dalla legge 107/2015 “Buona Scuola”. Ora si profila il frutto di quanto avviato allora e si sta preparando qualche cambiamento nel mondo del sostegno scolastico agli alunni con disabilità. Il sottosegretario Faraone, in una recente intervista, ha parlato di meno burocrazia, di fornire docenti più preparati, di certezza dei servizi e di razionalizzazione delle risorse. Dette così, cose già sentite e risentite. Speriamo che sia la volta buona.



In tema di alunni con disabilità, è ormai consolidato che la scuola sia aperta a tutti: la separazione tra scuola comune e speciale è superata e la presenza di insegnanti di sostegno è diventata “organica” alla scuola. Spesso, però, il contingente degli insegnanti di sostegno non è utilizzato solo per assicurare l’inclusione degli alunni con disabilità, ma anche per far fronte ad altre incombenti necessità di “nuove inclusioni”: di alunni di recente immigrazione, di quelli con disturbi specifici di apprendimento (Dsa), di quelli provenienti da famiglie deboli, divise, disperse — insomma, della vasta gamma di alunni con bisogni educativi speciali (Bes). Ma ciò oggi rischia di tramutarsi in un involontario capovolgimento del concetto di “sostegno”: da “risorsa aggiuntiva per assicurare l’integrazione dei disabili” a “risorsa indistintamente dedicata alle necessità dei Bes”.



È evidente che la necessità di “inclusione” non si discute. Ma ci si deve interrogare sulla corretta destinazione delle risorse aggiuntive previste per il sostegno agli alunni con disabilità, per mantenere intatto — in misura congrua — il diritto sancito per loro dalla legge 104/1992, ed anche per consentire altri interventi per l’inclusione dei vari Bes (all’interno, magari, dell’organico aggiuntivo previsto dalla Buona Scuola). Infatti, le regole in approntamento comprenderanno delle indicazioni inclusive generali.

Il problema sarà quello di trovare un criterio valido per salvaguardare i diritti degli alunni con disabilità senza distogliere da essi delle risorse per dedicarle ad altre necessità, pure degnissime di attenzione (alunni con Dsa e Bes).



Il problema è stato affrontato, rivisto e corretto a più riprese:

La legge 270/1982 istituì l’organico di sostegno quantificandolo in un docente ogni 4 alunni “certificati” (salvo eventuali deroghe per casi “gravi”);

L’art. 40 della legge 449/1997 cambiò il criterio di calcolo: un docente ogni 138 alunni complessivamente frequentanti le scuole statali di ogni ordine e grado su base provinciale e consolidamento dell’80% dei posti in organico di fatto; posti da suddividere poi tra le scuole, a cura dei “gruppi di lavoro provinciali” dei Provveditorati agli Studi, in base al reale fabbisogno rilevato dalle “Diagnosi funzionali”;

La legge 296/2006 (art.1, c. 605, lett. b) diede indicazioni un po’ evasive: “l’individuazione di organici corrispondenti alle effettive esigenze rilevate tramite una stretta collaborazione tra regioni, uffici scolastici regionali, aziende sanitarie locali e istituzioni scolastiche, attraverso certificazioni idonee a definire appropriati interventi formativi”;

La legge 244/2007 (art.1, commi 413-414) corresse la legge 296/2006 indicando l’obiettivo di “non superare un rapporto medio nazionale di 1 un insegnante ogni 2 alunni diversamente abili”, combinandolo con il seguente divieto: “il numero dei posti degli insegnanti di sostegno, a decorrere dall’anno scolastico 2008/2009, non può superare complessivamente il 25 per cento del numero delle sezioni e delle classi previste nell’organico di diritto dell’anno scolastico 2006/2007”.

Tale divieto fu abrogato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 80 del 22/02/2010 ed il DL 98/2011 (art.9, c.11) ne ha preso atto.

Tutto ciò ha creato sconcerto e incertezza. Ma la scuola ha continuato la sua opera di inclusione. Se adesso si punta ad una razionalizzazione delle risorse (non solo mediante la loro diminuzione, come accaduto a volte in passato), ben venga la “riforma del sostegno”, con dei criteri sostenibili per assegnare risorse aggiuntive per l’inclusione.

Sembra profilarsi un intervento complessivo volto a realizzare un “progetto di vita”, ben più che un semplice “piano educativo individualizzato”. Ciò comporterà un ampliamento della platea di persone coinvolte. Innanzitutto le famiglie, tante volte tenute fuori dalla scuola (errore madornale). Poi ci vorrà un maggiore coordinamento coi vari specialisti che seguono i casi di disabilità e coi servizi non scolastici (sociali, sanitari, assistenziali, ricreativi, culturali, ecc.) che ruotano attorno alla persona con disabilità.

Bisogna che il Miur eviti gli errori del passato, adottando una corretta misura di calcolo dei posti di sostegno per l’inclusione degli alunni con disabilità, per evitare che a questi sia sottratta una quota da destinareimpropriamente ad un “sostegno diffuso” di cui, ad ogni buon conto, ormai non si può più fare ragionevolmente a meno. Occorre ripensare al problema con punti di riferimento adeguati per individuare proposte sostenibili: questa è la prospettiva inclusiva di ampio respiro che la scuola ora si aspetta. 

Dipenderà anche dalle risorse messe in campo e dalle scelte di priorità correlate. Non necessariamente “più risorse”, ma “più mirate” di adesso. Se no, resterà radicata in molti l’idea che l’alunno con disabilità sia “esclusivamente” dell’insegnante di sostegno; invece è parte viva della classe e della scuola che frequenta e tutti gli insegnanti, oltre che i compagni di scuola, possono e devono farsene carico, ognuno per la sua parte.

Se ne parla fin dai passati anni settanta. Se non si sono ancora realizzate le condizioni perché ciò avvenga, però, non è solo colpa delle “risorse inadeguate” (in realtà cresciute a dismisura: gli insegnanti di sostegno sono arrivati alla quota-record di 124mila). La causa sta forse nella cultura ancor poco inclusiva del corpo docente ed ancor poco collaborativa dei servizi “di contorno”.

Non illudiamoci: ci vorranno ancora anni perché si raggiunga l’amalgama auspicabile di tutti gli interventi possibili.  

E bisognerà essere molto realistici: evitare che per “ogni” alunno con disabilità siano obbligatorie le medesime procedure, ma lasciare all’autonomia delle singole istituzioni scolastiche la prerogativa di scegliere dove concentrare gli interventi, perché necessari, e dove lasciare che le cose vadano con maggiore fluidità (e meno “carte inutili”) perché gli insegnanti sono già ben in contatto con le famiglie e “sono sul pezzo” come si deve. Scegliere caso per caso, insomma.

Ma la scuola è il luogo “naturale” dell’inclusione: una scuola non inclusiva non potrebbe dirsi scuola. Sempre, e da sempre in differenti modi, ogni tempo “sottolinea” l’esigenza di includere tutti con tratti diversi. Ecco perché, più di tutto, forse sarà la preventivata formazione diffusa dei docenti ad essere decisiva negli anni a venire. Auguriamocelo.