Anche il viandante dal pendio della cresta del monte,/ non porta a valle una manciata di terra,/ terra a tutti indicibile, ma porta una parola conquistata,/ pura, la genziana gialla e blu./ Forse noi siamo qui per dire: casa,/ ponte, fontana, brocca, albero da frutti, finestra…/ Ma per dire, comprendilo bene, per dirle le cose così, che a quel modo, esse stesse/ nell’intimo,/ mai intendevano d’essere“. 



Quanto ancora dovremo essere grati al poeta che traccia così il compito non solo della poesia, ma della parola, di ogni parola detta con verità dall’uomo? Molti autori del novecento riprendono il pensiero che Rilke sviluppa nella sua nona elegia duinese, uno su tutti: Mario Luzi dirà a più riprese che il compito della poesia è quello di dare un nome alle cose. E ogni insegnante che prenda sul serio il suo mestiere, in fondo, non fa altro. 



Ma se questo è lo statuto della parola poetica e onesta, come ancora voleva Saba, il primo tradimento di questo statuto viene proprio dalla scuola, dall’istituzione scolastica, dai suoi vertici e dal perverso percorso che essi intraprendono ormai quotidianamente nel loro operare, con la complicità ormai dichiarata di dirigenti compiacenti. 

Dunque di cosa parliamo? In fondo, e sempre, di quello che giunge nella scuola sotto forma di indicazioni, regolamenti, circolari applicative nelle quali si parla la lingua di ciò che non c’è, una lingua che non è in grado di dire la realtà, ma che invece rinomina le cose mistificando. Negli ultimi tempi si sono fatti apprezzare gli interventi di Chiosso e Botturi che, su queste pagine, hanno ricordato la centralità della lingua nel percorso educativo e hanno denunciato come, proprio intervenendo sulla lingua, si possano deviare le menti e la capacità del pensiero di giovani. 



Ma anche degli adulti. Per esempio, nei corsi di aggiornamento rivolti agli insegnanti, proposti ormai come una sorta di panacea per tutti i mali della scuola, sempre più spesso il primo punto del programma recita così: acquisire un lessico condiviso per quanto concerne gli aspetti essenziali della progettazione e della didattica. A cui fa seguito l’argomento vero e proprio del corso: per competenze, per alunni con bisogni educativi speciali, per l’insegnamento digitale, per le pari opportunità, eccetera eccetera. Che male c’è? Qualcuno potrebbe obiettare: è giusto accordarsi sui termini da usare, condividere il significato di ciò che diciamo. 

Certo, è giustissimo. Se quei termini, se quelle parole descrivessero le cose, la realtà, se dicessero pane al pane e vino al vino. Ma non è così: il lavoro nella scuola di ogni giorno, nella classe di trenta alunni come in quella di quindici, è cosa diversa. Io sto qui, con i miei non pochi anni di insegnamento sulle spalle, dentro un collegio docenti di un centinaio di persone, all’inizio quasi di un anno scolastico e osservo.  

Le parole in inglese, che il dirigente pronuncia un poco storpiandole, sono altisonanti: team buildingco-workingcooperative learning,team project, tanto project, sempre project, troppo project. I più giovani, quelli appena arrivati, ci guardano sorridendo: ecco, sembrano dire, adesso tocca anche a voi, il supplizio che ci hanno rovesciato addosso nel Tfa o per la preparazione al concorso adesso ve lo prendete anche voi, prima o poi doveva arrivare. 

Loro sanno già di cosa si tratta, quelli più antichi come me sono perplessi. Alcuni dicono una cosa che sento dire da quando sto qui: solita fuffa, ne ho viste passare di storie, non mi fregano più, lasciaglielo dire. Tanto poi saremo lì sulla riva e vedremo passare il cadavere anche di queste stronzate. Quelli apparentemente più coscienziosi, invece, cominciano a mettersi in discussione: oh mamma, non ho più l’età, come faccio a imparare anche queste cose? Ma lasciateci vivere in pace questo pezzo di Fornero che ancora ci rimane.

Lo spettacolo è triste, tanto se lo guardi da un lato, quanto se lo guardi dall’altro. E sembra che la guerra sia tra un progresso arrembante e vincente che vive dentro le parole di una circolare che guarda al futuro, che spinge, che muove e una classe di lavoratori stanchi, svogliati, incapaci di essere interpreti del nuovo. Tanto è vero, appunto, che qualcuno già si scusa, mette avanti le mani. Si può invece pensare, per una volta? Può un collegio docenti essere quello che dovrebbe essere, un luogo di elaborazione culturale, di pensiero, di visione educativa? Si può entrare nel merito, giudicare, scegliere? Le parole d’ordine sembrano essere indiscutibili; anzi, se qualcuno, ad esempio un vecchio professore come me che non vuole essere cinico come alcuni, né rassegnato come altri, né furbo come tanti altri ancora, sostiene che il tale progetto non sia una proposta educativa valida, si può sentire dire che si vogliono alzare steccati, che si costruiscono muri, che non si dà l’opportunità a chi lo vuole di crescere. 

Sembra insomma di stare al parlamento, con qualcuno che, dice il premier,  rema nella direzione sbagliata solo perché sta contro di lui, contro i project e il loro lessico nuovo. Ma qualcuno pensa alla lezione di domani? Qualcuno sa cosa entrare in classe a fare mercoledì? Sa come rendere affascinante un’ora di italiano o di scienze nei prossimi giorni? Qualcuno si chiede come Giovanni, Andrea e Riccardo potranno prendere appunti guardando il film?  

Io credo che molti dei miei colleghi, qui, stanno pensando a questo lavoro, e stanno pensando che le parole d’ordine vogliono addirittura distoglierci da quello che conta davvero. E’ possibile giungere fino a questo punto, fino a pensare che l’istituzione stia operando una sorta di rivoluzione rinominando i gesti e i modi della scuola per far morire la sostanza vera, irrinunciabile della scuola? Naturalmente non si tratta soltanto di un rinominare in inglese le cose, non è solo una traduzione, è un tradimento: il tradimento di un compito quotidiano che dovrebbe essere messo a tema proprio in un luogo come questo, di un compito che qualcuno porta avanti in una programmazione attenta a tutto e a tutti. Ma non si chiama project, e forse basterebbe chiamarlo così perché il dirigente fosse in grado di vederlo. Ecco cosa fa il lessico disonesto: fa distogliere lo sguardo, anzi l’offusca completamente, rende totalmente incapaci di vedere. Quindi di pensare, giudicare, capire. Quello che c’è, quello che dobbiamo chiamare per nome. Che è tanto, che non è vecchio, che non alza steccati: guardo il mio collega di lettere alzarsi dalla sedia appena finito il collegio e gli altri intorno a lui. Butto la testa in mezzo al cerchio magico. Domani lui leggerà il libro di narrativa, che anche gli altri cinque colleghi hanno scelto con lui, a tutti gli alunni di tutte le terze: 120 ragazzi con teste occupate da milioni di cose che però in quell’ora lì stanno seduti per terra e ascoltano un libro. Non per comprendere il libro, ma perché il libro è capace di comprendere loro, di parlare con loro e di loro, attraverso la voce di un professore senza Lim, senza microfono, senza tablet, senza armi, ma senza paura di credere ancora che la scuola è dare un nome alle cose, magari prendendo in prestito i nomi da un altro che li ha dati prima di noi, ma che li ha trovati guardando le cose. Sapendo che il primato della realtà è l’unica certezza di potere costruire davvero un mondo diverso, di immaginare un copione diverso dentro il quale non ripetere soltanto le parole d’ordine che una qualsiasi istituzione vuole trasmettere. C’è competenza più grande?