Faccio l’insegnante, so che la scuola italiana vuole passare (è passata?) da scuola delle conoscenze (sapere qualcosa) a scuola delle competenze (saper fare, ovvero saper applicare le proprie conoscenze). 

Non mi ritrovo però in una scuola esclusivamente delle competenze. Per fortuna ogni mattina decine di migliaia di insegnanti disattendono nei fatti la consegna (?) di avere come scopo esclusivo lo sviluppo di competenze. Per fortuna, perché, da Aristotele a Einstein e oltre, tanti grandi geni dell’umanità ci hanno detto che vale la pena privilegiare il contrario. Aristotele (grande osservatore della realtà) inizia la sua Metafisica proprio affermando che per natura l’uomo desidera conoscere per il gusto stesso di conoscere, Einstein esorta a non uccidere la meraviglia: la conoscenza deve anche essere fine a se stessa, non può essere indirizzata solo ad acquisire competenze. Come con grande delicatezza e struggimento esprime Machado, nei suoi Proverbi e cantari: “Bello è sapere che i bicchieri/ ci servono per bere;/ il brutto è che non sappiamo/ a che serve la sete. Non dà piena soddisfazione il puro saper usare tutto quello che abbiamo a disposizione, rimane sempre l’esigenza di sapere.



Del resto, chi non ha incontrato nella vita, o avrebbe voluto incontrare (o forse ha incontrato ma non ha riconosciuto?) maestri che hanno confermato questa verità?

Nei fatti, dunque, la scuola continua (miracolosamente) a essere momento educativo grazie non alle direttive ministeriali, ma alla umanità di chi entra in classe ogni mattina e stabilisce un rapporto da adulto nei confronti di giovani considerati non il destinatario di una legge delega ma soggetti di vite che si vanno sviluppando grazie anche a quanto nell’aula, magari tra sbadigli e contestazioni, tra sotterfugi e tentativi di “farla franca”, si va creando. Si tratta, certo, di una “navigazione a vista”, che mi sembra però inevitabile (o addirittura auspicabile), trattandosi di liberi rapporti umani.



Perché tutto questo? In giorni recenti alcuni articoli di quotidiani e una nota del ministero dell’Istruzione hanno riproposto all’interesse di tanti la questione dell’esame finale del ciclo di studi scolastici, ovvero l’esame di Stato o esame di maturità che dir si voglia.

È evidente che per progettare un esame occorre avere in mente che cosa si deve andare a testare: e qui viene a galla tutto lo smarrimento sociale di fronte alla questione educativa. È inutile fingere che le grandi domande che ci costituiscono nel nostro essere uomini non abbiano a che fare con quanto si svolge a scuola. Eppure sembra gridare più forte chi punta al saper fare: indispensabile certo nel nostro mondo, come riconosciamo nella vita di tutti i giorni (dall’uso del forno a microonde alla prenotazione di un posto aereo all’interpretazione di istruzioni scritte solo in inglese). Ma il saper fare non ci dà risposte complete (“mille vigili che dirigono il traffico non sanno dirci dove stiamo andando“, ci ricordava Eliot). 



In ogni caso la scuola riformata dal ministro Gelmini e rimessa in assetto dalla legge 107/2015 (ora bisognosa di deleghe attuative), lascia aperta tutta la questione: come forse è giusto che sia.

Se una verifica proposta in classe dal professore non pretende di andare a testare tutto quello che è avvenuto nell’ora di lezione, perché non può testare (sarebbe una contraddizione in termini) l’eccedenza di significato che quell’ora di lavoro ha portato, credo che occorra tener presente, analogamente, che l’esame non può rendere ragione esaurientemente del percorso di crescita di una persona che, entrata nella scuola dell’infanzia a pochi anni di vita, ne esce dopo circa 15 giuridicamente responsabile delle sue proprie scelte. Il valore dunque della scuola, anche della scuola superiore, non sta tutto e solo nella capacità di superare brillantemente un esame.

Naturalmente è sempre in agguato il ricatto morale: invece di proporre un iter scolastico che si ritiene adeguato si addestra lo studente a rispondere (in modo più elegante si dice che lo si “prepara”) alle prove di maturità. Così quello che dovrebbe essere conseguenza (una personalità matura sa far fronte, grazie anche alle conoscenze e competenze acquisite, all’esame) diventa lo scopo primario. Su questo le famiglie, ma più in generale la società, hanno una forte responsabilità, perché il clima sociale di competizione senza limiti invece che di solidarietà umana (come il sociologo Bauman ha non molti mesi fa richiamato in un’intervista riportata da un quotidiano italiano) nella nostra convivenza sociale disgregata sembra imporre un primato del saper fare, una necessità di primeggiare in cui la competenza diventa l’unica misura. Peccato che, scambiando le conseguenze con lo scopo, il corto circuito che consegue crei disastri umani.

Ancora una volta riecheggia il monito di Eliot: “…sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d’essere buono“, cerchiamo un esame così perfetto che permetta di porre tra parentesi la fatica e la responsabilità del divenire adulti.

Dunque, in definitiva, di quale esame abbiamo bisogno nella nostra scuola italiana? Non lo so, ma non credo che, dal punto di vista educativo, sia questo il problema principale: in ogni caso, se, come credo, la formula dell’esame perfetto non esiste, sarebbe forse meglio non legare a questa tappa necessaria il peso, che invece finora ha mantenuto, del cosiddetto “valore legale”, tanto più che comunque le università si organizzano, nell’accogliere i candidati alle varie facoltà, spesso prescindendo, o tenendone conto solo in parte, dall’esito numerico dell’esame di licenza superiore. È ovvio che dalla scuola, e poi dall’università, deve uscire un giovane che sia in grado di rispondere a quanto il mondo adulto del lavoro richiede: ma certamente un ragazzo che non si è ridotto a competenze, ma ha mantenuto desto il desiderio di conoscere sarà più curioso, più abile anche nel problem solving. 

Fa discutere, rispetto alla modifica dell’esame di Stato, anche la questione della commissione, formata solo da professori interni. Vorrei a questo proposito fare un’osservazione, un po’ a margine: spesso l’atteggiamento con cui molti guardano è di sospetto: se la commissione è tutta interna, allora le scuole paritarie sforneranno allievi impreparati, e la scuola italiana, nonché la società, si deve tutelare da questi abusi. Direi che non è buona politica umana quella che si attesta prioritariamente su una linea difensiva, o su una logica di sospetto. Ma a questo punto torniamo alle questioni precedenti: da una parte l’assetto sociale odierno sembra aver perso la categoria della fiducia, dall’altra il valore di una scuola non è riducibile alle competenze quantificabili.