Caro direttore,
se c’è una cosa che fa periodicamente “andare in loop” certa intellighenzia laica italiana è sicuramente l’esistenza dell’insegnamento della religione cattolica (IrC) nel nostro ordinamento scolastico. In un certo senso è uno degli aspetti della società italiana su cui certi laici si comportano proprio da “chierici” — per dirla alla Péguy — e non riescono proprio ad essere laici fino in fondo, cioè liberi. Su questa questione si “incartano” e vivono in un’ansiosa attesa o della scomparsa dell’IrC o di un qualche provvedimento ministeriale che lo trasformi in altro, sopprimendolo nella sostanza. Tuttavia, alla radice di questi due atteggiamenti, in fondo figli di quella stessa liquidità culturale che attanaglia spesso anche il variegato mondo degli insegnanti di IrC, traspare a volte qualche indizio di domanda che lascia ben sperare anche nelle espressioni più critiche o tranchant.
Ad esempio, il settimanale L’Espresso pubblica un articolo a firma di Davide Mancino (“Scuola, l’ora di religione non interessa più”) sulla “lenta ma progressiva scomparsa dell’ora di religione a scuola”; a detta dell’autore una vera e propria “rivoluzione” silenziosa iniziata dieci anni fa, ma ormai, in via di consumazione avanzata.
Ad una lettura un po’ affrettata, il pezzo appare come un perfetto esempio di quella trepida cupio dissolvi dell’IrC cui si accennava prima, cui non avrei niente da rispondere se non quanto già scritto tempo fa qui sul sussidiario a proposito di un omologo articolo, sempre dell’Espresso. Ma l’esortazione conclusiva di Mancino mi ha colpito: “potrebbe essere il caso di ripensare questo pezzetto di istruzione italiana: così da non escludere o offrire soltanto soluzioni di ripiego agli ormai tanti che compiono una scelta diversa”.
Questo finale è davvero interessante perché, se ho capito bene, Mancino auspica che a quel 12,2 per cento di studenti italiani che non frequentano l’ora di religione venga offerta una valida ed originale proposta formativa, lasciando intendere che la cultura laica, di gran lunga dominate nella scuola italiana anche a livello istituzionale, assumendo finalmente un atteggiamento propositivo, dovrebbe assumersi una volta per tutte la responsabilità educativa di questi “centinaia di migliaia” di bambini, ragazzi e giovani lasciati in balìa del nulla elaborando qualcosa di serio.
Infatti, tra gli stessi dati che costituiscono la sostanza dell’articolo (fonte Cei), Mancino, forse per pudore, omette di citare che se si sommano le percentuali di quelli che optano per lo studio autonomo con quelli che scelgono di uscire da scuola, il 63,6 per cento — che sale a quasi l’80 per cento nelle scuole superiori — di quel 12.2 per cento, per un’ora o due alla settimana è praticamente abbandonato a se stesso. Personalmente, come insegnante ho sempre visto questa situazione come un “vulnus” doloroso nel sistema scolastico italiano, perché se la libertà si esercita pienamente solo di fronte ad una offerta chiara e positiva, ci troviamo in presenza della violazione di un diritto: quello di poter scegliere veramente e, quindi, liberamente.
Tutti quelli che hanno a cuore l’educazione delle nostre giovani generazioni dovrebbero desiderare un’effettiva libertà educativa piuttosto che un suo progressivo restringimento o il mantenimento dello status quo. Ci si dovrebbe allora interessare di più della sfida posta dalla maggior parte di quel 12,2 per cento di non avvalentesi e delle loro famiglie che scelgono il nulla, piuttosto che augurarsi la scomparsa dell’IrC.
Sicuramente, non è più ammissibile questa situazione di “lassismo scolastico privo di ogni valore formativo”, come scrive Matteo Righetto nel suo pungente e interessante articolo su Il Foglio (“Leggere la Bibbia in classe salverà l’ora di religione e la nostra identità”, 5 novembre 2016). Righetto, a dirla tutta, usa l’espressione “lassismo scolastico” anche riferita all’ora di religione che non considera una disciplina vera e propria ma solo, spero più come espediente retorico per un incipit ad effetto, come una mostruosa fucina di deficienti. Tutta la questione che ruota attorno all’IrC è vista da Righetto come qualcosa di orrendo e pericoloso, come Ortro, il cane bicefalo di mitologica memoria. La soluzione proposta dallo scrittore ed insegnante, novello Eracle, non è nuova e consiste nel tramutare l’IrC in ora di lettura ed esegesi della Bibbia rendendola “obbligatoria e curriculare”. Mi astengo dal commentare diffusamente questa soluzione proposta da Righetto, come pure mi limito solo a ricordare, en passant, che l’IrC è già una disciplina curriculare (perché è inserita nelle finalità stesse della scuola tanto che lo Stato è tenuta ad “assicurarla”) e non è confessionale (perché tutti possono frequentarla, a prescindere dal loro credo religioso).
Sulla proposta in sé, che ha una dignità culturale non trascurabile che meriterebbe più spazio, metto solo in evidenza due rilievi critici. Il primo è la richiesta dell’obbligatorietà. Fa proprio tanta paura un insegnamento che può essere scelto liberamente? Perché? Il secondo, correlato al primo, è che una delle fissazioni del pensiero laico è quella di far diventare la dimensione religiosa “ancella” di altro, strumento degli interessi umani pratici, anche se di nobile fattura, piuttosto che riconoscere la sua specifica e autonoma dimensione nel campo dell’esperienza umana.
In realtà, dispiace dirlo, queste proposte sono tipiche di un’idea presente in quella parte del mondo laico che non ha mai voluto fare seriamente i conti non solo con la presenza dell’IrC nella scuola, ma con l’esperienza religiosa ebraico-cristiana stessa che non può essere ridotta a semplice, seppure importante, fattore di ispirazione letteraria. Nel 1984 il cardinal Martini, che certo non può essere considerato un fondamentalista, scriveva a proposito della presenza dell’IrC nella scuola statale italiana: “Le altre materie trattano degli oggetti loro propri e fanno emergere l’esigenza di considerare il problema della libertà e della coscienza. L’insegnamento della religione accoglie questa esigenza e mette a tema il rapporto della coscienza e della libertà con i fini ultimi. Non è quindi adeguandosi alle altre materie, ma, al contrario, differenziandosi da esse, pur in un costante dialogo, che l’insegnamento della religione aiuta la scuola a raggiungere le sue finalità”.
In questa prospettiva la Chiesa italiana lavora da anni e se Righetto leggesse le Indicazioni nazionali (i “programmi”) dell’IrC, potrebbe rendersi conto che quello che chiede — ovvero lo studio del testo biblico — dell’IrC è già parte rilevante. Certo, e qui concordo con Righetto nella denuncia di apertura del suo articolo, non sempre le Indicazioni sono seguite bene e sistematicamente nella pratica di molti insegnanti di religione, spesso più inclini all’intrattenimento psicologico, etico o catechistico. Ma di questo la Chiesa è cosciente, tanto che Martini aggiungeva nello stesso documento che essa “deve impegnarsi a svolgere nel miglior modo possibile questo compito che le è stato affidato” e che “in questo campo molto resta ancora da fare”. Del resto, siamo certi che solo l’IrC versa in questa crisi di risultati? I dati Invalsi e i rapporti Pisa registrano una realtà ben diversa, mi sembra.
Comunque, soprattutto nel commovente riferimento ai grandi e amati scrittori debitori in qualche modo alla Bibbia, nell’articolo di Righetto, ancor più forse che in quello di Mancino, emerge chiaramente la consapevolezza della crisi culturale in cui versa la scuola italiana da decenni e trapela una profonda esigenza di serietà. Il fatto che la causa del malessere venga individuata nella presenza dell’IrC è ovviamente una distorsione culturale che ha quasi dell’umoristico e della cui origine abbiamo accennato, ma rimane per noi tutti una questione aperta: qual è ultimamente lo scopo della scuola e come tutte le discipline esistenti possono contribuire al suo perseguimento pur conservando la propria identità?
Nessuno può eludere la portata del quesito che esige almeno di essere continuamente richiamato. Perché, come scrive François Xavier Bellamy chiudendo il suo bel saggio dal titolo I diseredati, “urge riconciliarsi con il significato stesso dell’educazione per far vivere in ognuno la cultura, per mezzo della quale l’uomo diventa umano, la libertà effettiva e un futuro comune possibile”. Ovvero, per dirla con lo stesso Righetto, per “far ripartire un risveglio identitario della nostra società”.