Capita, prima o poi, nella vita dell’insegnante di lettere, che qualcuno gli dica che la scuola non favorisce l’amore alla lettura. “Il verbo leggere non sopporta l’imperativo”, si ripete, rubando a Pennac il celebre incipit del suo Come un romanzo. Ma “se una notte d’inverno un viaggiatore” varcasse con coraggio quelle prime parole ed entrasse realmente nel mondo che esse spalancano, forse ne uscirebbe più pieno di domande che di rigide certezze, e (forse) anche un po’ più benevolo verso la scuola e i professori. 



Confesso di non avere come prima preoccupazione, nel mio lavoro, quella di promuovere l’amore alla lettura. 

Al termine del suo romanzo, in Se una notte d’inverno un viaggiatore Italo Calvino fa dire, ad un lettore giunto in aiuto a chi cerca un romanzo nella grande biblioteca cui è approdato, che “Il guaio è che una volta cominciavano tutti così, i romanzi. C’era qualcuno che passava per una strada solitaria e vedeva qualcosa che colpiva la sua attenzione, qualcosa che sembrava nascondere un mistero, o una premonizione; allora chiedeva spiegazioni e gli raccontavano una lunga storia…”.



A quale bisogno risponde una storia, e perché dunque val la pena “durar la fatica” di leggere? È la curiosità che si accende di fronte a qualcosa che per qualche motivo si percepisce diverso, recante come un invito. “Quale storia laggiù attende la fine?” 

Se dunque di un movimento di curiosità e di una disponibilità all’apertura all’altro si tratta, l’amore alla lettura prende le pieghe di una questione ben più profonda che la semplice familiarità con un oggetto che in fondo sfugge ad ogni definizione. 

Quando entro in classe ogni mattina non ho come prima preoccupazione quella di promuovere amore alla lettura, ma di suscitare e accendere il desiderio profondo di conoscenza, di spalancare. “C’è un ostacolo al leggere — ed è sempre lo stesso, in ogni campo della vita: — la troppa sicurezza di sé, la mancanza di umiltà, il rifiuto ad accogliere l’altro, il diverso” dice Pavese in un bellissimo articolo pubblicato nel 1945 su L’Unità: “Accade coi libri come con le persone. Vanno presi sul serio. […] In questo l’uomo che fra i libri non vive, e per aprirli deve fare uno sforzo, ha un capitale di umiltà, d’inconsapevole forza — la sola che valga — che gli permette d’accostarsi alle parole col rispetto e con l’ansia con cui ci si accosta a una persona prediletta. E questo vale molto più che la ‘cultura’, è anzi la vera cultura. Bisogno di comprendere gli altri, carità verso gli altri, ch’è poi l’unico modo di comprendere e amare se stessi: la cultura comincia di qui. I libri non sono gli uomini, sono mezzi per giungere a loro; chi li ama e non ama gli uomini, è un fatuo o un dannato”. 



Alla fine del mese di ottobre si sono svolte, sul territorio nazionale, due iniziative congiunte per promuovere la lettura nelle scuole, e i bandi del Miur non mancano di sottolineare l’importanza delle biblioteche scolastiche; domani, a Milano, un’altra manifestazione rimetterà al centro ancora, anche per le scuole, libri e lettori. 

Mi trovo a guardare con simpatia queste iniziative, e ad alcune ho anche partecipato, ma so anche che se un seme non cade su una terra buona, è difficile che possa attecchire e crescere libero e forte. I tempi e i ritmi della scuola sono più vicini a quelli di un contadino che, paziente, ara, irriga, coltiva i suoi campi, cura e misura i suoi gesti. 

Amo molto leggere in classe, con gli alunni, romanzi e racconti, poesie. Ad alta voce, talvolta distribuendo le parti: mettersi insieme in ascolto di parole di un altro, seguire il suo accento e scoprir la sua voce. Assegno spesso, anche, dei libri da leggere a casa: suggerimenti o testi esemplari, decisi da me, terreno per tutti di un lavoro comune. 

So che non tutto ciò che scelgo incontra il gusto dei miei studenti, e che lo sforzo che chiedo loro potrebbe avere l’apparenza dispotica dell’imperativo rubato a Pennac. Ma se andiamo oltre l’apparenza, c’è una parola che affiora, ed è il verbo “proporre” (anima — credo — di tutta la scuola). È mettendo davanti qualcosa con cui misurarsi che si può offrir l’occasione di fare dei passi: ascoltare e sentire chi ha qualcosa di significativo da dirmi fa crescere e spalanca le porte di mondi inediti, nuovi. I libri rivelano “i pori sulla faccia della vita” dice il vecchio Faber a Montag, in uno dei suoi drammatici dialoghi con il pompiere incendiario. È anche a questo che serve la scuola. 

Non vieto o scoraggio le letture personali, e talvolta le ho fatte anche presentare ai compagni. Ma sono convinta che anche da qualcosa di non immediatamente consono alla propria sensibilità si possa imparare. Inoltre, un romanzo per tutti permette al docente di fornire degli strumenti di lettura e di interpretazione, offrendo un metodo che porti a raccogliere gli indizi del testo e ad entrare nel suo senso profondo. Leggere chiama noi stessi: “gli autori qua e là lasciano tracce che il lettore è chiamato a seguire”, mi ha detto una volta un alunno. E se in classe si scopre, si vive e si impara questo, anche le letture personali assumono diverso spessore, e il gusto della lettura si consolida e cresce.

“Io leggo perché lo dice la prof” ha detto un ragazzo quando gli ho chiesto di completare l’hastag con cui una delle campagne per i libri è stata promossa e lanciata sui social. Ma poi ha subito aggiunto: “Io leggo perché non mi piace leggere, ma i pochi libri che ho letto mi hanno appassionato talmente tanto che mi hanno spinto a continuare a leggere”. Avrebbe potuto dire così se nessuno gli avesse proposto qualcosa?

Conosco bene la reazione di una classe quando si assegna un libro da leggere, e il tormento del prima (che cosa, e perché), ma mi capita anche sempre più spesso di vedere, nel tempo, anche le conquiste del poi. Le raccolgo stupita, ad esempio, sparse nei temi, quando per spiegare qualcosa di sé sorprendo a distanza i ragazzi ricorrere a parole di altri, che insieme abbiamo ascoltato o che da soli hanno scoperto; le sento nel silenzio dell’ora in cui racconto una storia e poi qualcuno mi chiede, alzando la mano, di scrivere alla lavagna titolo e autore (“Io lo leggo, e tu?” si consultavano settimana scorsa, quando in una terza media ho presentato la vicenda di Fahrenheit 451, venutomi in mente per via di una discussione che stavamo facendo); le ho ammirate quando, un anno, proposto un libro per le vacanze di Natale, al rientro ho trovato sui banchi gli spin-off del romanzo che in tanti avevano letto, battendo sul tempo anche me; ho sentito un’alunna difendere addirittura il dovere, quando ha alzato la mano e ha risposto a chi le diceva che non si impara ad amare a leggere a scuola che non è sempre così, e che anche dentro il compito che le era stato assegnato, lei aveva scoperto qualcosa di bello per sé, una passione. 

Parla di un dono Pennac, di un regalo: donare ciò che si ama. Ancor prima dei libri, aggiungo, per amare poi i libri: “Non sono i libri che vi mancano, ma alcune delle cose che un tempo erano nei libri. Le stesse cose potrebbero essere diffuse e proiettate da radio e televisori. Ma ciò non avviene. No, no, non sono affatto libri le cose che andate cercando. Prendetele dove ancora potete trovarle, in vecchi dischi, in vecchi film, e nei vecchi amici; cercatele nella natura e cercatele soprattutto in voi stesso. I libri erano soltanto una specie di veicolo, di ricettacolo in cui riponevamo tutte le cose che temevamo di poter dimenticare. Non c’è nulla di magico, nei libri; la magia sta solo in ciò che essi dicono, nel modo in cui hanno cucito le pezze dell’Universo per mettere insieme così un mantello di cui rivestirci”.