C’è un possibile equivoco, nel bellissimo libro di François-Xavier Bellamy, I diseredati, ovvero l’urgenza di trasmettere, di cui ilsussidiario.net ha già detto a suo tempo e che ora è uscito in italiano per i tipi di Itacalibri. È, ripeto, un libro bellissimo, che vale assolutamente la pena leggere, sicuramente per chi si occupa di scuola, ma anche per chiunque sia curioso di capire da dove nasca il dramma di quella “emergenza educativa” che è sotto gli occhi di tutti.
Bellamy passa infatti in rassegna in maniera impeccabile le origini culturali della distruzione dell’educazione, puntando il dito contro tre cattivi maestri che hanno posto le basi del disastro.
Il primo è Cartesio, che apre la strada col proclama: “Allontaniamoci dai libri; sostituiamo l’incertezza del sapere ricevuto con la certezza dell’unica conoscenza legittima, quella che ciascuno può costruire da sé. Scegliamo da soli la nostra strada”. Secondo Cartesio “La scuola è sconfortante. È utile solo per gli esercizi che vi si praticano e che almeno hanno la virtù di aprire la mente del bambino, pur non lasciando un contenuto di conoscenze valide: la storia forma il giudizio, la morale gli conferisce altezza, la filosofia aiuta ad esprimersi. Queste materie possono essere coltivate con profitto non tanto per il loro contenuto, che risulta incerto e quindi poco interessante, quanto come ‘attività di stimolo’, per gli esercizi ai quali esse abituano”.
Dopo Cartesio, Rousseau: “Il progresso della civiltà ha reso l’uomo insieme cattivo e infelice. I dotti ci hanno resi infelici, gli artisti ci hanno pervertiti”. Di qui il ribaltamento del compito educativo: “dato che l’ignoranza è innocente, e la cultura pericolosa, l’educatore deve valutare tutto ciò che non deve insegnare al bambino, non ciò che deve insegnargli”.
Terzo tra cotanto senno uno dei padri del Sessantotto, Pierre Bourdieu. Ne Gli eredi — pubblicato nel 1964, a cui il titolo del libro di Bellamy espressamente si rifà — sostiene che la cultura è uno strumento del potere, serve per selezionare chi entrerà a far parte della casta dominante e chi ne sarà escluso: “Non c’è trasmissione che non sia violenza, non c’è educazione che non poggi sull’affermazione brutale e indiscussa di un pregiudizio del mondo degli adulti”. Liberare gli uomini sarà quindi liberarli dalla cultura.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti. È Samy, quindicenne accoltellato a due passi dal liceo dove Bellamy insegna perché è entrato nel territorio di una banda rivale; è il ritorno allo “stato di natura” invocato da Rousseau, che però non ha niente di idilliaco: è violenza tribale ed espressione ridotta a grido inarticolato.
Del resto, chi aveva occhi per vedere lo aveva già visto due secoli fa. Alla fine del Settecento infatti fu scoperto un ragazzino che era cresciuto da solo in una boscaglia del sud della Francia: non era il “buon selvaggio” profetizzato da Rousseau, uomo perfetto; al contrario, “si agitava instancabilmente e senza scopo, mordendo e graffiando tutti coloro che lo contrariavano, indifferente a tutto, e a nulla prestando attenzione. Aveva dei sensi ma non sapeva usarli; i suoi occhi non sapevano guardare; le sue orecchie non sapevano ascoltare; l’odorato era così rozzo che riceveva con altrettanta indifferenza i profumi più soavi e gli odori più ributtanti; insomma, tutti i suoi sensi, o distratti, o insensibili, vagavano incessantemente da un oggetto all’altro senza sosta”. Perché — prosegue Bellamy — “fra tutti gli esseri viventi, l’uomo si distingue perché ha bisogno dell’altro per realizzare la propria natura. Solo, non sono ancora niente di quello che potrei essere; senza gli altri, non diventerò mai me stesso. Come dimostra l’esempio di Victor, all’uomo abbandonato manca addirittura la coscienza di sé stesso. Questa miseria radicale è la prerogativa della nostra natura”. La lingua — ricevuta da altri, inevitabilmente “imposta” — non è, come vorrebbero i rivoluzionari, una prigione; al contrario, “serve una lingua per pensare, un linguaggio con le sue regole, i suoi limiti e il suo lessico comune e imperfetto. Serve una lingua per obbligarci a esplicitare, anche per la nostra stessa coscienza, le nostre sensazioni e le nostre intuizioni. Abbiamo bisogno della lingua non solo per comunicare, ma anche per vivere la nostra vita interiore”. Allora, trasmettere una lingua e una cultura — lo spazio è tiranno, lascio al lettore le pagine strepitose in cui Bellamy spiega perché è giusto trasmettere una lingua e una cultura — è la condizione imprescindibile perché un uomo diventi un uomo.
Una lettura da sottoscrivere parola per parola. Perché allora parlo di un possibile equivoco? Lo dico con un celebre aforisma di Chesterton: “Ogni errore è una verità impazzita”. Cartesio sbaglia a buttare a mare tutta la tradizione che lo precede; ma il fatto che quella tradizione fosse morta, non fosse più in grado di dire una parola significativa sulla vita, è vero. Rousseau è terrificante, anche più di quanto Bellamy osservi, perché afferma apertamente che lo spontaneismo è finto, è un trucco per impadronirsi della volontà dell’alunno nella maniera più perfetta (“Non v’è soggezione tanto perfetta quanto quella che conserva l’apparenza della libertà”, lo scrive lui nell’Emilio); però l’esigenza che pone, che la cultura incontri la domanda del ragazzo, è sacrosanta: “Nulla è incredibile come una risposta a una domanda che non si pone” è affermazione di un’evidenza solare. E quando Bourdieu mette la scuola nella lista delle istituzioni oppressive di “un sistema militare, ospedaliero e carcerario” dice il vero, la scuola di Stato davvero nasce con lo scopo di irreggimentare la società.
Il rischio possibile dopo aver letto Bellamy, allora, è di sentirci dalla parte dei “buoni”, di quelli che siccome continuano a proporre Omero e Dante sono ipso facto nel giusto. Il problema vero invece non è se trasmettere un’eredità culturale, ma come la trasmettiamo. L’introduzione all’edizione italiana mette a fuoco perfettamente la questione: “La vitalità e la forza della tradizione passata non sono l’esito di un passaggio automatico, come se si trattasse di travasare il contenuto di un recipiente in un altro; al contrario, come osservato da Giussani, il passato conserva la sua freschezza e vitalità solo se ‘è presentato dentro un vissuto presente che ne sottolinei la corrispondenza con le esigenze ultime del cuore'”.
Perché Cartesio, Rousseau, Bourdieu, tanti nostri studenti, si ribellano contro la tradizione? Perché non hanno incontrato un maestro per cui quella tradizione è realmente sorgente di vita. Qual è la mia responsabilità di insegnante, oggi? Riscoprire ogni giorno “la vitalità e la freschezza” di quel che la tradizione mi ha consegnato, la pertinenza di Omero e di Dante alle domande mie e dei miei studenti, oggi. Solo così possiamo ricominciare a trasmettere, possiamo ricominciare ad accompagnare i nostri ragazzi nel cammino che li può portare dallo stato tribale a quello umano.