Se il buon giorno si vede dal mattino, allora la quarta edizione del convegno nazionale “Romanae Disputationes” non poteva partire in modo migliore. Il tema di quest’anno è uno di quelli che non possono lasciare indifferenti, anche perché costituisce di fatto uno degli snodi più indicativi del cambiamento d’epoca che il nostro tempo sta attraversando: “Logos e Techne. Tecnologia e Filosofia”.
Ad aprire i lavori — che poi proseguiranno con la lezione del prof. Carmine Di Martino il 16 novembre a Bologna e successivamente con il convegno del 17 e 18 marzo prossimi a Roma — è stato il prof. Carlo Sini, la cui importanza e notorietà nel contesto filosofico italiano contemporaneo è tale che c’è davvero poco da aggiungere. È impossibile sintetizzare senza banalizzare, riportare senza annacquare il contenuto di una lezione (tenutasi venerdì, nell’aula magna dell’Università Cattolica di Milano) sulla quale i 500 tra ragazzi e professori presenti e gli oltre altri 2800 collegati da tutta Italia avranno ben modo di riflettere, discutere in classe e non solo in preparazione ai prossimi appuntamenti.
D’altra parte, l’intervento del prof. Sini ha offerto ben più che qualche spunto passeggero, anche su come impostare — e forse addirittura ripensare — l’insegnamento della filosofia a scuola.
Perché, allora, è così importante oggi riflettere su un tema come questo? La sua proposta è tanto — a suo dire — inattuale, quanto drammatica se seguita fin nelle sue ultime implicazioni e di fatto viene esposta senza troppi giri di parole: non si dà né potrà mai darsi uomo senza tecnica e tecnica senza uomo, perché lo strumento tecnico per eccellenza è proprio il logos e il logos è ciò che fa dell’uomo l’uomo. Perciò, parlare della tecnica è parlare dell’uomo, ma allo stesso tempo — e proprio di questo non dobbiamo mai dimenticarci — non si può parlare adeguatamente della tecnica tralasciando l’uomo. Il logos, la parola, ma potremmo anche dire in senso più generale — e senza tradire il portato semantico del termine — “la ragione” è, secondo Sini, come un bastone con il quale l’uomo si addentra nell’esperienza in cerca di conoscenza, un bastone con cui tenta, cioè, di raggiungere i frutti dell’albero posti troppo in alto perché possa raggiungerli altrimenti. Ed è qui che emerge tutta la specificità dell’uomo: egli è l’unico essere che non sa soltanto fare, ma che anche sa che cosa sta facendo, l’unico essere in cui l’intenzione può distinguersi dal fine e la realtà diventare intelligibile.
Da un altro punto di vista, però, secondo Sini, resta vero un fatto, e cioè che l’uomo è irrevocabilmente aperto ad un rischio: “grandissima cosa e grandissimo pericolo” l’essere tecnico dell’uomo. Ogni traduzione dell’esperienza e della vita, nella quale pur tuttavia la conoscenza consiste, è anche una necessaria frammentazione, aritmetizzazione di quella stessa vita e di quella stessa esperienza di cui l’uomo partecipa.
Da questo lato, ogni traduzione resta sempre anche un “tradimento” dell’esperienza: l’uomo è per così dire “condannato” dal suo stesso essere uomo a sezionare quel tutto in cui pur sussiste e che resta così opaco. Credo non sia un caso sentire qui in parte l’eco delle parole che Lessing rivolge a Reiss nella sua Replica: “Se Dio tenesse nella sua destra tutta la verità e nella sua sinistra il solo tendere alla verità con la condizione di errare eternamente smarrito e mi dicesse: — Scegli —, io mi precipiterei con umiltà alla sua sinistra e direi: Padre, ho scelto; la pura verità è soltanto per te”. A partire da questa ambivalenza permanente possono nascere quelle che Sini ha chiamato “superstizioni”: superstizione è credere che la priorità non stia più nel transito della realtà, ma nei segni che noi apponiamo a testimonianza del fatto che essa è (già) passata, è invertire il rapporto di priorità tra il segno e la cosa. È precisamente questo il riduzionismo metafisico in cui frequentemente la scienza moderna cade quando dimentica chi è che pensa, fa, guarda, parla.
D’altra parte, pur in tutto questo contesto, la filosofia può ancora ritagliarsi uno spazio tutt’altro che secondario: secondo Sini, essa resta quello sguardo sintetico che serve a ricordare questa istanza socratica del “chi” è l’uomo; essa serve, cioè, ad approfondire “il mistero globale in cui siamo immersi”, a ricordarci della priorità assoluta del dato, benché nella sua stessa prospettiva quest’ultimo resti ultimamente inattingibile.
Con il suo intervento Sini ci ha posto, quindi, una questione ineludibile, con la quale storicamente la filosofia si è – in un modo o nell’altro – sempre confrontata e lo stesso siamo chiamati a fare anche noi, se si vuole essere uomini degni di questo nome. E ciò è vero, perché è una questione che nasce dalla nostalgia insopprimibile che possa darsi un punto di unità reale tra una verità universale ed una storia particolare – aldilà del fatto che Sini stesso sembri scettico che questo possa verificarsi. In fondo, è la stessa paradossalità che Kierkegaard desiderava abbracciare, quando nelle sue Briciole, si domandava, riprendendo proprio il problema posto Lessing: “come è possibile che verità storiche contingenti siano la prova di verità necessarie della ragione?”, “si può mai dare un punto di partenza storico per una conoscenza eterna?”.
Fare e insegnare filosofia è innanzitutto prendere sul serio questa domanda e farne il carburante di ogni lezione. Difficilmente, allora, sarà lo stesso entrare in classe.