A parte poche eccezioni, come ilsussidiario.net, la querelle sui nuovi esami di maturità, i cui elementi innovativi sono stati anticipati dal Corriere e subito smentiti dal ministero, sembra essere passata come una notizia che non merita una particolare attenzione. Eppure, avrebbe dovuto provocare una larga discussione, in funzione alla vera domanda, cioè se servano o meno, nel contesto attuale. Mantenendo oppure cancellando quel benedetto “valore legale del titolo di studio”.



Invece, niente. Come dire: meglio non pensarci, meglio continuare ad alimentare un feticcio che ha, però, sempre meno adepti. Alcuni dati oggettivi dovrebbero però dirci qualcosa di importante, con una disoccupazione giovanile che dovrebbe essere letta da tutti come mancato raccordo tra piano della formazione, attitudini personali e complessità economico-sociale. 



A cosa servono, dunque, gli esami di maturità, a parte quel dato psicologico di essere “rito di passaggio”? Non varrebbe, prima di modificarli, ragionarci su bene? Non solo; se proprio li vogliamo mantenere, una vera valutazione non dovrebbe essere di soli esterni, con prove standardizzate nazionali, in modo da offrire a tutti un punto di riferimento comparabile? Magari senza più quelle contraddizioni che portano le regioni con dati Invalsi ed Ocse-Pisa più deficitari a regalare cento e lode, con relativo bonus, a troppi ragazzi, se confrontate con le regioni con dati migliori.



Insomma, commissioni di soli docenti esterni, anche con un unico presidente per istituto, ma di soli esterni. Senza più correre dietro alla bufala del valore aggiunto dei docenti interni come commissari “perché conoscono i propri allievi e possono quindi valorizzare il loro percorso di studio”. Mentre la vita, lo sappiamo, non dà sconti, su questo tema: meglio gli esterni. Costano troppo, queste commissioni di soli esterni? Allora meglio toglierlo, l’esame. Se “riti di passaggio” devono essere, meglio farli sul serio, farli cioè in modo serio. Aiuto concreto ai nostri ragazzi, i quali hanno bisogno di verità, non di surrogati. Perché attraverso le valutazioni possono orientare nel concreto le proprie scelte di vita e di studio. Senza più pezzi di carta che non hanno alcun valore. 

La cosa vale per le superiori come per le università, perché i titoli di studio non valgono se poi non riescono a tradursi in percorsi di raccordo col mondo del lavoro. In Veneto, ad esempio, sono molti gli imprenditori che si lamentano del fatto che non riescono ad incrociare adeguate competenze universitarie, per inserirle nelle loro aziende sempre alla rincorsa dell’innovazione e della competizione globale.

Non parliamo poi di quei titoli di studio universitari che, addirittura, non hanno mercato del lavoro, e che sperano solo in un posticino al sole nella scuola, sapendo che, per alcune classi di concorso, la fila è lunghissima, con tutte le prime posizioni occupate, senza filtro qualitativo, da docenti non più giovani, precari storici. Un’amara eredità della cosiddetta Buona Scuola.

Ma l’università, in questo campo, qualcosa di buono l’ha fatto, negli ultimi anni, con i test di ingresso. Che dovrebbero essere previsti per tutti i percorsi, introducendo il numero chiuso, in modo da garantire in concreto gli sbocchi occupazionali, cioè l’occupabilità dei titoli di studio.

Ma il grande tema, di cui nessuno parla, è l’orientamento in ingresso alle scuole superiori. Lo ripeto: nessuno ne parla, eppure è il vero punto cruciale.

Noi italiani crediamo che la libertà di scelta, ridimensionata all’università con i test di ingresso, sia un valore intoccabile quando si parla di iscrizione alle scuole superiori. Un feticcio anche questo.

In alcune scuole, per ragioni di spazio, sono stati introdotti dei filtri qualitativi, come, ad esempio, la presa d’atto dell’indicazione dei consigli di classe delle scuole medie (non è possibile fare affidamento sul voto finale perché le iscrizioni sono entro febbraio, mentre le valutazioni a fine giugno). Ma questo non può bastare.

In alcuni Paesi sono le scuole che iscrivono, sulla base dei risultati, gli studenti alle scuole superiori, non le famiglie. Con passerelle tra indirizzi in caso di valutazioni in progress che dicono risultati positivi. Reali pari opportunità, dunque, ma centrate sui risultati, non sulle intenzioni, non sulle aspettative (soprattutto delle famiglie, per i licei).

Questa, dunque, è la grande rivoluzione che dovrebbe essere sperimentata anche in Italia, sapendo che a contare, al dunque, lo ripeto, alla fin fine sono i percorsi che garantiscono sguardi di futuro possibile, perché forieri di speranza. Quella che non manca, troppe volte, dai volti dei nostri giovani, visto l’immobilismo sociale, che avvantaggia i padri e i nonni sui figli e nipoti, la stessa che ha reso nuovamente vuota ogni mobilità sociale. A parte i coraggiosi, che scelgono, dopo la laurea, la via estera, con i risultati che sappiamo.

I dati sui Neet, quelli sulla disoccupazione giovanile, le lunghe file per alcune classi di concorso dovrebbero dirci qualcosa di concreto; si vede invece, da parte dei decisori politici, ma anche degli addetti ai lavori, solo un assordante silenzio.