E così non potremo più cantare che la verità ci fa male, dopo che abbiamo saputo dall’Oxford English Dictionary che siamo transitati nell’era della “Post-Truth”, la post-verità, premiata come “parola dell’anno 2016”. La verità sarebbe una vecchia chincaglieria da buttare tra gli oggetti usati di cui ci si vuole sbarazzare in un’epoca che già ha assistito al crollo di altre evidenze: i valori, le quattro stagioni, la leadership degli Stati Uniti nel mondo, eccetera.



Non c’è pace per il nostro io o semplicemente non esiste? La questione è intrigante perché a noi “pare” di esistere. Dunque nell’era della post-verità chi siamo, che ne è dei nostri ricordi, delle nostre attese, delle nostre speranze? I vari commentatori spiegano sugli organi di stampa che post-verità descrive “le circostanze in cui i fatti obiettivi sono meno influenti sull’opinione pubblica rispetto agli apparati emotivi e alle convinzioni personali”, che si nutrono delle informazioni che circolano sui social media senza verificarle. Le bugie e le notizie ad effetto generano contatti e visualizzazioni che è difficile smentire perché non c’è controllo della rete. Il mondo virtuale ha generato la perfetta virtualità, nella quale però tutti siamo immersi. 



A guardarci bene dentro, tuttavia, la faccenda della costruzione di menzogne attraverso internet puzza di déjà vu. Puzza di stantio, cioè, nella misura in cui si focalizza più in generale il tema del rapporto tra certezza e verità, che sottende, potremmo dire da sempre, ogni percorso scolastico quantomeno liceale che agli alunni consenta di intrecciare conoscenze di diversi ambiti del sapere e di diventarne positivamente critici. Il rapporto tra il pensiero della realtà e la realtà stessa, tra il soggetto e l’oggetto, è non “un” argomento, ma l’argomento del lavoro scolastico che è entusiasmante proprio perché introduce alla comprensione della realtà, cioè in qualche modo alla sintesi di coscienza e conoscenza. 



Una rapida carrellata, molto scolastica, appunto, ci riporta alla mente l’epoca antica e medievale in cui l’uomo non dubitava di potere conoscere veramente le cose esterne a lui, nel loro significato di creature modellate secondo uno scopo che l’uomo stesso poteva incontrare e vivere. Non solo la filosofia e la teologia, ma anche la scienza era figlia di questa visione qualitativa dell’essere. La scienza moderna l’ha messa fortemente in discussione ma senza rescindere il nesso tra ciò che possiamo dire del mondo e la sua struttura oggettiva. Nella prospettiva galileiana la natura ha una intima essenza che il linguaggio matematico svela e traduce alle nostre menti. Arriva poi la frattura, il dubbio cartesiano, il razionalismo che mette in discussione tutto quanto. Possiamo affermare ben poco di ciò che esterno a noi, dicono i razionalisti, perché è impossibile uscire dall’orizzonte del pensiero che pensa e organizza. Il dubbio diventa metodico e investe ogni ambito del sapere. Le cose in se stesse sono imperscrutabili, la ragione annulla la teologia, il mondo di una volta è rovesciato dal suo piedistallo. È la rivoluzione del pensiero.  

Abbiamo già visto tutto questo. Abbiamo constatato l’abbandono della verità e l’edificazione dell’opinabile, di concetti e forme di vita sociale fondate sul controllo della ragione illuministica che separa da sé ciò che è richiamo al fondo misterioso delle cose. Sui banchi di scuola ancora si insegnano le realizzazioni utopistiche dell’uomo che disegna il proprio perimetro di certezze ed esclude violentemente da esso ogni forma di alterità. Le utopie scritte sui libri sono poi diventate rivoluzioni sociali, nel tentativo vano e disperato di riagguantare un qualche rapporto con la verità. La verità è infatti una nostalgia che periodicamente, come dimostrano i poeti, si risveglia nel cuore degli uomini che l’hanno dimenticata. In tante esperienze totalitarie del secolo scorso la strada verso la verità ha avuto alla base la menzogna sull’uomo, che sarebbe un essere storico, sociale, immanente. 

La fine dei sistemi ideologici (l’ideologia è appunto una falsa verità che si insinua nell’uomo come certezza) ha liberato energie e travolto confini che ci hanno portato alla situazione attuale e alla post-verità, inconcepibile prima dell’era del web. 

Siamo però attrezzati ad affrontarla e a rispondere all’ennesima sfida delle circostanze. Ben venga, dunque, la provocazione. Nell’universo della globalizzazione dove l’informazione è confusa e la rete annulla la percezione “vera” della realtà, l’io è una risorsa fondamentale. Chi sono io se esisto solo virtualmente? Questa è la domanda alla quale la scuola, meglio: il rapporto educativo, può e deve rispondere. 

Il rapporto educativo è infatti un abbraccio e non si abbraccia un’assenza, ma uno che è, che deve ancora farsi, ma che già è. E a sua volta l’io che si sente accolto e abbracciato in questa nuova dimensione di sé comincia a sperimentare una nuova esistenza: non sono un essere virtuale perso nei social e da essi definito, ma uno (o una) cui un altro sta guardando con misericordia e compassione. Anche nell’era della post-verità possiamo ricomprendere che la verità di noi è un altro e di ciò siamo certi perché ci accoglie, si cura di noi. Sono non perché “dubito”, ma perché sono guardato. Il grande compito della scuola in questa fase di cambiamenti epocali è ancora quello di proclamare e fare vedere che la speranza non è morta. Non siamo destinati a morire “post”.