Caro direttore,
ho letto con attenzione l’articolo della prof.ssa Antonella Carullo sull’esperienza di Probat, cioè di “una” delle certificazioni linguistiche latine che vengono somministrate nel nostro Belpaese: come ho detto in maniera più “accademica” in un contributo intitolato “Cronistoria culturale della Certificazione Linguistica Latina per la didattica del terzo millennio”, pubblicato in Latinitas nel 2015 (si tratta della rivista ufficiale vaticana della Pontificia Academia Latinitatis), se in Italia non abbiamo raggiunto il federalismo regionalistico a livello politico-istituzionale, abbiamo raggiunto una sorta di regionalismo delle certificazioni di latino!
Abbiamo infatti (per ora) almeno tre modelli: ligure, lombardo e veneto. Ci sono sperimentazioni anche in Sicilia (che è una regione a statuto speciale…), sebbene ci siano enclaves lombarde (e non uso impropriamente questa parola) a Trento e Ferrara. Per quanto mi risulta: infatti la certificazione di latino ha assunto una dimensione quasi nazionale, tanto che il Miur pare essere interessato ad approfondire la questione.
L’augurio è che si arrivi a una forma condivisa e standardizzata del test della Certificazione linguistica di latino, poiché essa deve essere espressione di un’idea unitaria di istruzione classica come identità originale di una nazione e di uno Stato, che sono termini astratti ottocenteschi, destinati a naufragare dolcemente di fronte alla globalizzazione di un mondo sempre più basato sul paradigma della complessità.
L’istruzione classica è veramente in crisi e potrebbe rischiare l’estinzione, in quanto ormai gli stessi docenti hanno fiutato quel che serpeggia nell’opinione pubblica, costituita dalle famiglie degli studenti appena licenziati dalla scuola secondaria di primo grado a fronte di un calo vorticoso delle iscrizioni degli aspiranti ginnasiali al liceo classico: questi ragazzi del terzo millennio sono stati definiti “nativi digitali”, mentre noi — le generazioni precedenti — eravamo, inconsapevolmente, già cittadini del “villaggio globale”.
Come ho potuto già dichiarare in altri articoli apparsi su ilsussidiario.net, trovo che il sistema delle certificazioni sia un approccio nuovo e innovativo all’esperienza linguistica della lingua latina: non è più pensabile che un ragazzo di oggi possa ingurgitare una conoscenza metalinguistica di un corpus letterario come quello del latino ai livelli di competenza (almeno richiesti da programmi e prassi consolidate) dei “nostri” tempi: a che pro studiare una lingua così tanto, se poi non “serve” a niente nel mondo di oggi?
Gli studiosi delle didattica delle lingue moderne hanno elaborato tre concezioni della grammatica: la grammatica teorica/scientifica, ovvero una grammatica che indica una teoria linguistica elaborata dal linguista e rivolta ad un pubblico di specialisti; la grammatica descrittiva, ovvero la descrizione della lingua come sistema, o meglio ancora, del sistema di una data lingua: se tale descrizione è operata secondo criteri formali, la teoria di riferimento è tradizionale, se invece la descrizione è elaborata secondo un modello di matrice pragmatica, i criteri sono di carattere funzionale (destinatario e dunque fruitore della grammatica descrittiva è il parlante che possiede una conoscenza tacita (implicita) della lingua in questione); la grammatica pedagogica: se sia la grammatica teorica sia la grammatica descrittiva non sono progettate per favorire l’apprendimento della lingua seconda o straniera, la grammatica pedagogica, ha lo scopo di presentare le informazioni linguistiche non secondo una teoria o un modello, ma avendo come traguardo l’obiettivo di adeguarsi ai bisogni formativi a livello linguistico dell’apprendente e di facilitare e di arricchire l’uso della lingua.
Se si parte dalla premessa che bisognerebbe insegnare agli studenti la grammatica “pedagogica” per il latino, si dovrebbe arrivare al concetto di “running grammar” impiegata nel “reading method” su cui è basato un corso di latino pubblicato nel mondo inglese da una blasonata università.
Cioè a me pare ragionevole, in base al monte ore e in base all’indirizzo liceale e agli stili cognitivi degli alunni, puntare o su una grammatica essenziale per la lettura strumentale-decifrativa dei testi antichi, senza una traduzione effettiva, oppure su uno studio della grammatica latina non autoreferenziale, ma anche in funzione del consolidamento della lingua italiana e di altre lingue europee moderne, secondo lo spirito del metodo neocomparativo.
Certo è che difficile innovare quando sono radicate pratiche nelle nostre scuole: eppure le certificazioni di latino, non insistendo rigidamente sulle conoscenze dichiarative e su nozioni metalinguistiche, si muovono su questo solco che sta divenendo sempre più praticato da docenti impegnati nel salvataggio della cultura classica.
Non è questa la sede per valutare le differenze dei format dei modelli delle certificazioni linguistiche latine che nascono, anche, per un certo protagonismo della scuola italiana, che è una conseguenza positiva della voglia di cambiare e migliorare.
Antonella Carullo fa bene a sottolineare l’importanza dell’aspetto motivazionale per lo studio della lingua latina grazie al sistema delle certificazione, stimolando sia l’alunno-candidato sia il docente a confrontarsi con un dispositivo non congegnato alla valorizzazione delle eccellenze (come certamina, olimpiadi ecc.), ma alla “valutazione” del livello momentaneo ma progressivo di apprendimento linguistico rispetto a certe competenze individuate da descrittori condivisi.
L’aspetto originale di Probat è che tale certificazione nasce come esperienza autoctona e autonoma da parte dei tre licei menzionati per trovare, dopo qualche tempo, la “validazione” (nel senso inglese del termine…) presso le sfere accademiche e, di conseguenza, il recente riconoscimento formale sotto l’egida della Consulta Universitaria degli Studi Latini. Un percorso capovolto rispetto alle altre esperienze, per quanto mi risulta.
Questo, a mio parere, è un fatto assai positivo, perché ci dice che le scuole sono veramente fucine di idee e di entusiasmo, e poi mi fa pensare all’operosità della Repubblica della Serenissima.
La chiusura dell’articolo della Carullo è eccezionale: “in altre parole non occorre essere latinisti per conseguire la certificazione”. Perché? Aggiungo io: ma perché “siamo tutti latinisti!”, per alludere a un vecchio best-seller di Cesare Marchi. Ma erano altri tempi, quando il latino si studiava… sul serio.