Eccoli, sono arrivati. Paventati, temuti, temutissimi, irrevocabili, inevitabili come le tasse o l’influenza (e, fateci caso, arrivano proprio nel periodo coincidente come questi due flagelli): sto parlando dei ricevimenti collettivi pomeridiani. In questi due pomeriggi, uno nel primo quadrimestre, solitamente sotto Natale, e uno in primavera, la scuola viene presa letteralmente d’assalto da orde di genitrici e genitori che cominciano a rumoreggiare e a premere ad portas (a quelle della scuola, beninteso), ben prima dell’orario d’inizio di questo poco gioioso happening. Invano il professore spera di avere un’infuenzina, piccola piccola eh!, nell’imminenza di uno di questi pomeriggi, che, fortunatamente, capitano solo due volte all’anno, dato che il docente medio riemerge alla fine dell’esperienza in uno stato pietoso.
Mediamente, il corpo docente si colloca in uno spettro di condizioni compreso fra un paio di situazioni-tipo: c’è, a un estremo di questo schema ideale, il caso di chi insegna una delle materie uscite maciullate dalla riforma (pardon, volevo dire, materie il cui piano orario è stato ridotto, anche brutalmente, come matematica al liceo classico, per intenderci); e poi ci sono altri, come i professori di lettere, che rischiano di esaurire tutto l’orario di servizio con una o due classi, dato il cospicuo numero di ore, specie nel biennio, che si passano in una stessa aula (alla sottoscritta è capitato di averne 11 in una classe… vedete voi).
I docenti del primo gruppo avranno quindi, come precipuo impegno nel tour de force dei ricevimenti pomeridiani, quello di resistere di fronte a un assalto di genitori (provate voi a immaginare cosa significhi avere 9-10 classi da 25 studenti l’una in media, per un totale di 200-270 studenti, e poi ne riparliamo) di figli il cui volto — fra supplenze e supplenze di supplenti nominati sino ad avente diritto — spesso a fine novembre-inizio dicembre non è ancora ben memorizzato o associato a un nome. Per cui, anche se il docente annuisce con aria fintamente a proprio agio, ricordate, o genitori, che il professore che vi trovate davanti, mentre siete tutti tesi e impegnati a raccontare le disavventure scolastiche di vostro figlio — roba che nemmeno le romanzesche Clarissa e Pamela potrebbero mai concepire — sta dissimulando più o meno abilmente lo sforzo di riuscire a capire di quale studente stia mai parlando la gentile signora in cappotto cammello che siede di fronte a noi da un quarto d’ora. All’altro capo del disgraziato filo, il docente di lettere, specie se donna, specialmente se passa in quella classe più di sei-sette ore, e se la conosce da qualche anno, viene nominato sul campo vice-mamma (o mammo) in servizio permanente ed effettivo, e, conseguentemente, verrà investito non solo di tutte le criticità disciplinari, ma anche di tutte le problematiche di tipo-pedagogico-cultural-esistenzial-emotivo.
Ma lasciamo perdere ed entriamo nel merito. Mentre i professori di storia dell’arte e di fisica cercano di richiamare alla memoria la faccia di Paolino Rossi, quando di fronte alla madre si contorcono in formule che più neutre non si può, e mentre il prof di lettere italiane e storia, impegnato in una seduta di training motivazionale per interposta persona con la mamma di Paolina Bianchi, pensa che ha sbagliato a non fare lo psicologo (“Hai voglia! Almeno, a parità di ore di lavoro, guadagnerei come minimo tre volte tanto!”), nelle aule riecheggiano le consuete, trite e ritrite formule.
Per cui, cari genitori, forte di un’esperienza quasi ventennale, e di una conoscenza altrettanto profonda dell’ambiente scolastico dall’interno, vi consiglio di non usare mai le seguenti formule, trite e ritrite di quando la mia povera nonnina (classe 1914) era alle scuole elementari, pardon, alla scuola primaria. Di seguito, le formule/scuse incriminate, con, fra parentesi, la risposta, frutto di buonsenso, che sorge spontanea nell’animo del prof, e che arriva sino alle labbra, quando non viene debitamente censurata per motivi di opportunità.
1 – “Mio figlio/a ci tiene così tanto a frequentare questa scuola!” (Embè! Anche io ci tenevo tanto tanto ad entrare nel corpo di ballo della Scala, ma ero ampiamente oltre i requisiti fisici richiesti… e se non ci sono i presupposti di base, che si deve fare? Perché questa semplice, per quanto aspra verità, viene perfettamente compresa per quanto riguarda le attività sportive e ginniche, e non per quelle scolastiche e formative? Come mai questo malinteso per cui tutti possono fare tutto, in qualsiasi indirizzo scolastico, basta che “ci tengano”? Se io mi fossi iscritta in un istituto tecnico a indirizzo chimico o agrario, sarei ancora oggi al secondo anno! E avrebbe fatto benissimo chiunque mi avesse consigliato di re-indirizzarmi verso un’altra tipologia di scuola, più adatta alle mie inclinazioni e capacità! Non omnes omnia possumus….)
2 – “Ma mio figlio/a ha tanta grinta” (Si commenta da sè: non siamo in un reality, non basta la tenacia, che pure è indispensabile: serve lo studio, che è sacrificio fatto con l’opportuno metodo, e dedicandoci un numero di ore che, volenti o nolenti, per la frequenza in un liceo non possono proprio essere, mediamente, meno di tre-cinque al giorno).
3 – “Oh! Mio figlio/a ci è rimasto così male per l’ultima insufficienza! E’ così deluso/a” (E pure io sono parecchio delusa! Che cosa dovrei dire del fatto che da due, quattro, cinque anni correggo sempre gli stessi errori, su punteggiatura, ortografia, sintassi, italiane beninteso?). Quando poi si chiede al genitore “Ma lei ha visionato la verifica?”; la risposta oscilla fra “Ho visto solo il voto” (e tanti saluti a chi impiega tanto tempo a segnalare la tipologia di errore e le forme corrette); e “No, perché lavoro tutto il giorno” (Anche questa si commenta da sé…)/ “No perché tanto di questa materia non ci capisco niente” (Testuali parole) /”No, però ho visto che mio figlio ci è rimasto tanto male” (Vedi sopra).
4 – “Mio figlio studia tutto il giorno e non si vedono i risultati” (Purtroppo, per tutta una serie di motivazioni relazional-interpersonali, spesso ahimè attinenti non tanto al galateo quanto al quieto vivere, la formula più abusata nella scuola è: “Il ragazzo ha le capacità, ma non si impegna”; certo più consolatoria di quella contraria, che, spesso, però, sarebbe quella più confacente e adeguata alla situazione…).
Se quindi siete interessati a capire davvero quelle che sono le vere difficoltà e i veri punti di forza dei vostri figli a scuola, rifuggite dalle formule stereotipe, dalle frasi fatte: prima ascoltate i ragazzi, guardate i compiti a casa, i compiti in classe e le verifiche eseguiti, chiedete ai ragazzi e poi chiedete, nel dettaglio e senza espressioni preconfezionate, ai professori. Scoprirete un mondo.