Che nella gioiosa macchina da guerra della rottamazione renziana qualche rotella avesse cominciato a cigolare s’era già capito da molti altri sintomi, ma un guizzo così maligno e masochistico non s’era ancora visto. Con un colpo di coda degno di miglior causa, nell’ultima ora dell’ultimo giorno di ordinaria amministrazione, cioè il 12 dicembre scorso, mentre la campanella stava per passare dalle mani di Renzi a quelle di Gentiloni, il governo rottamatore (ma rottamato dal voto referendario) ha deciso l’autogol.



Con una firma senza capo né coda, ha spappolato – peggio ancora che rottamato – uno dei pochi simboli dell’innovazione che vede l’Italia ben messa in Europa, le università telematiche. Una firma, con tutta probabilità apposta “a sua insaputa”, da una persona perbene com’è stata la ministro dell’Istruzione e dell’università Stefania Giannini, non a caso punita per esserlo stata e sostituita da una gentile signora titolare di un diploma magistrale, ma – pare – molto apprezzata dal Presidente emerito della Repubblica, individuata con criteri in cui, di merito, c’era solo quello contenuto nella parola che definisce oggi Giorgio Napolitano.



In due parole: il funzionario ignoto che ha preparato il decreto 987 del 2016 firmato dalla Giannini il 12 dicembre ha prescritto al popolo italiano che per ogni 150 studenti telematici le università digitali devono impiegare almeno 6 docenti ordinari, cioè a tempo pieno. Devono quindi accollarsi almeno 350-400 mila euro all’anno di costi fissi. Facciamo due conticini: 400 mila euro diviso 150 studenti quanto fa? Fa 2.666 euro all’anno. Arrotondiamo a 3.000 euro, visto che qualche spesuccia collaterale l’Università deve pur sostenerla, per far funzionare una piattaforma telematica adeguata. Un bel pagare, decisamente più caro delle rette di alcune delle migliori tra le 19 telematiche funzionanti in Italia. Un’esosità che sovverte un elemento logico essenziale della formazione digitale: l’accessibilità economica.



Quest’accessibilità nasce – attenzione! – non dalla prodigalità degli imprenditori universitari, non è “uscito pazzo il padrone”: nasce dal concetto stesso di formazione digitale. Il concetto è chiaro: un docente tradizionale, per condurre un corso di studi articolato in 1.000 ore di lezione frontale deve presentarsi fisicamente in aula per 200 giorni, insomma un anno di lavoro, e ogni anno deve ripetersi. Con la formula telematica, una volta costruite le lezioni digitali di base, soprattutto in alcune materie, il docente può limitarsi ad aggiornarle nei moduli che cambiano col progredire della ricerca, oltre a garantire la fase degli incontri di impostazione didattica e poi, naturalmente, a gestire gli esami.

Ma non deve dedicare 200 giornate di lavoro a quel corso: ci mancherebbe! Nell’arco di un corso di studi, la quantità fisica di presenza richiesta al docente è molto meno intensa, a seconda dei casi può variare tra la metà e un terzo dell’impegno assorbito dalla formula tradizionale, esami compresi, e questo consente un inquadramento “straordinario” del docente stesso, che si traduce in minori costi per i gestori dell’università e in minori prezzi per gli studenti. In sintesi: più cultura a minor costo. Quel che si auspica per quel futuro “più formato” di cui il nostro Paese avrebbe tanto bisogno.

E invece? Invece, con il decreto dell’ultimo minuto, il modello delle università telematiche perde sostenibilità economica. Quasi una sentenza di morte. All’insegna – si deve supporre – di un equivoco: in questo genere di formazione, la presenza fisica materiale dei docenti non è richiesta ai fini della qualità della preparazione degli studenti, che sanno di dover garantire a se stessi da soli la necessaria assiduità nello studio delle lezioni digitali…

Se proprio il Miur vuole presidiare – chissà poi da qualche pulpito – la qualità della formazione erogata dalle università telematiche, spedisca ispettori o “membri esterni” a sovrintendere al momento degli esami: scoprirà che le lezioni frontali, con connesse pennichelle degli studenti dell’ultimo banco, di per sé non garantiscono una stilla di cultura in più di quelle telematiche, l’unico “bollino blu” su ciò che gli studenti imparano all’università deriva dalla qualità intrinseca delle lezioni (fisiche o telematiche non cambia nulla), e dall’attenzione intelligente dei discenti…

Negli Stati Uniti, atenei gloriosi come Stanford hanno ormai più studenti digitali – in tal modo tra l’altro agevolati nell’esigenza di non trasferirsi di migliaia di chilometri lontani da casa – che “fisici”. E non si può dire che Stanford fornisca laurea di carta straccia, con tutto il rispetto delle lauree italiane.

Insomma, una norma priva di senso. Da rettificare senza se e senza ma.