Il silenzio degli innocenti non è sempre silenzio. È grido. È invocazione e giudizio storico sul livello di inumanità cui è giunta la nostra cosiddetta umanità. L’uccisione degli innocenti è purtroppo una cifra del nostro tempo. Non l’unica, ma quella che è destinata a rigare più in profondità il ritratto di questi anni di una terza guerra mondiale combattuta a pezzi. Le guerre, ci è stato insegnato a scuola, hanno avuto nel corso del Novecento una loro triste logica: motivi espansionistici sostenuti dall’uno o dall’altro Stato nazionalistico, aggressività sul versante interno ed estero di dittature totalitarie, riassetto etnico dopo il crollo dei sistemi che avevano retto il mondo fino all’89.
Le vittime erano una conseguenza. La terza guerra mondiale a pezzi è costruita per fare vittime. Le vittime sono l’obiettivo prioritario, non l’effetto collaterale. La guerra odierna è infatti guerra del terrore che ha come scopo la sottomissione dell’individuo ad una forma di potere che tende ad annullare le resistenze interne all’essere umano. Una volta ridotto alla pura e bestiale voglia di sopravvivenza, l’uomo coinvolto suo malgrado nella guerra attuale è disposto a tutto perché ormai nulla per lui conta.
La guerra del terrore può colpire ovunque, come a Berlino nei giorni scorsi, a causa di qualche lupo solitario radicalizzato i cui richiami ad una religione dello scontro con l’occidente sono sempre più irreali nella loro routinaria ripetitività. Può assumere sembianze geopolitiche in medio oriente e tradursi nel martirio della Siria, dove naufraga l’ideale di un mondo pacificato (da chi? Dall’Onu? Dagli Usa? Dalla Russia?) dopo il crollo delle ideologie.
La guerra del terrore è l’altra faccia del crollo delle evidenze di cui è intessuta la nostra contemporaneità, o post-contemporaneità, dove il prefisso “post” indica la difformità rispetto a quello che una volta erano gli “ismi” (materialismo, capitalismo, fascismo, comunismo, ecc.). Può diventare, ancora, traffico di migranti in fuga, diretto a scardinare le nostre sicurezze in modo diverso da un bombardamento, ma con effetti simili: la paura dell’altro.
Eppure le nuove vittime di questo combattimento globale che si gioca sulla pelle del senso dell’esistenza una voce la possiedono. I settemila bambini, soprattutto, caduti finora nella guerra civile siriana e le migliaia di migranti morti nel Mediterraneo (cinquemila nel 2016) e le persone rimaste incolpevolmente uccise negli attacchi dell’Isis al cuore dell’occidente non sono perdute in un vuoto cosmico senza luce. Storicamente questo nuovo olocausto è un fatto destinato a restare inciso nella memoria della nostra età e di quelle che verranno. È innegabile: disponiamo di troppi strumenti massmediatici per poterlo contestare. Il ricordo delle vittime innocenti, dei loro nomi e delle loro identità (se è possibile ricostruirle, e dove non si può nei cimiteri degli ignoti, come a Lampedusa) è importante. Nel ricordo di chi è stato travolto da una nuova forma di violenza il vivente ricostruisce il senso della propria dignità e diviene più consapevole di essere costituito da una promessa di bene e di felicità, non da messaggi distruttivi.
Ma è come se tutto ciò non bastasse, non bastano cioè le pur encomiabili celebrazioni dei luttuosi eventi planetari che ci hanno addolorato di recente. La strage degli innocenti chiede anzitutto a noi un cambiamento, supplica la nostra conversione, senza la quale non sapremmo fare i conti con l’annuncio della nuova nascita che oggi riceviamo. Privi della coscienza di essere davvero visitati saremmo come “orfani”, tormentati dall’assenza di un conforto: soli nella notte oscura, come scrisse Pascoli nella omonima poesia. Eppure l’invito che ci deriva dai drammi del nostro presente, divenuto radicale e senza sconti nella sua brutalità, è di guardare in faccia l’avvento di quel fattore imprevisto e apparentemente insignificante accaduto in un angolo del mondo, in un tempo particolare e di cui da allora ci parlano i testimoni.
L’odierno annichilimento di tante vite trova, nell’umiliazione misteriosa di Colui che ha voluto assumere in tutto la nostra condizione, un grembo che lo riscatta dal nulla e lo rende utile al bene di tutti. Il nostro compito è di non esserne solo spettatori ma partecipi, anche noi riconoscenti per essere stati visitati da una così infinita misericordia.