Le norme in Italia sono ammirate e lodate. Tuttavia, sono ritenute ideali irraggiungibili; per questo, se sono trasgredite, non si vede un gran male: siam peccatori, ma confidiamo nell’amnistia e nell’indulto. Avviene pure nelle vicende linguistiche. I precetti dell’uso codificato dalla tradizione grammaticale suscitano rispetto profondo, ma anche senso di inadeguatezza e timore di sbagliare. Per non rischiare errori, si evita di scrivere. Per non sentirsi troppo mediocri, si trascurano le pagine degli scrittori esemplari. Così, tra l’ideale e la pratica quotidiana vi è un abisso. Del resto, è arduo apprendere, quando abbondano i censori, ma latitano i maestri. Pochi insegnano a scrivere con proprietà e a redigere testi, anche semplici, di taglio narrativo, descrittivo o argomentativo; però molti sono pronti a redarguire e nulla approvare oppure a transigere e tutto tollerare.



Da Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, è giunto un invito autorevole ad armarsi di buon senso di fronte alle norme della lingua: “Bisogna rispettare la lingua, ma evitando atteggiamenti aristocratici” (Corriere, 12 dicembre). 

A volte, una scelta stilistica è imposta come canonica: un uso possibile è presentato come l’unico uso corretto. Eppure, basta viaggiare nei testi dei grandi classici, per trovare ampio uso di altre scelte stilistiche, spesso condannate come errori da coloro che i tedeschi chiamano Arschpauker (eufemisticamente, sono i maestrini pronti a punire l’errorino). Per esempio, gli può valere “a lei”, “a loro”, non solo “a lui”: in fin dei conti, è la continuazione del latino illi e illis. Quindi, gli ha detto invece di ha loro detto / le ha detto può non piacere, ma non è scorretto: è una scelta stilistica, non è la formula grammaticale. 



Nella sua recente Lezione di italiano. Grammatica, storia, buon uso (Mondadori), Sabatini mette in luce una tendenza che ha appesantito la tradizione della grammatica italiana: scelte stilistiche di prestigio sono elevate a canone. Come conseguenza, altre soluzioni, pur diffuse nella storia della lingua, sono ridotte a scelte devianti dalla norma. Ed ecco lo stigma verso il se lo sapevo, lo dicevo. Questo è un modulo espressivo ben attestato fin dal Trecento. Eppure, secondo i normatori della stretta osservanza rientra nelle fattispecie dei reati in materia di violato congiuntivo. Sabatini osserva, con acutezza, che il congiuntivo è in buona salute quando è nel predicato di frasi come ti possano […] (come malaugurio) / magari fosse vero [augurio] oppure che tu voglia o no (ecc.) / ah, sapessi che cosa è successo (introduttore di gossip). Invece subisce la concorrenza dell’indicativo quando è in frase subordinata (come la protasi del periodo ipotetico) o è retto da verbi come credere o pensare: credevo che stava non è bello — è stilisticamente infelice, ma è usato “sin dalle origini della lingua italiana” (ibidem). 



Anche forme come credo che ci hai ragione sono marcate regionalmente e popolarmente, ma si usano, probabilmente, anch’esse da secoli; poi, è vero che molti, oggi, invece di ci hai scrivono c’hai. Qui entra in crisi l’ortografia: come si può indicare, nello scritto, la movenza tipica della lingua popolare? Se vi è devianza dalla norma, che sia tale anche nell’ortografia!

Viva dunque la saggezza di Francesco Sabatini, che ci esorta a leggere, comprendere e scrivere con libertà, responsabilità e ben temperata creatività. Serve, prima, adeguata erudizione.