Non è ben chiaro quanto sia costata sinora la legge 107, anche se alcune fonti parlano di circa due miliardi di euro e l’assunzione di 90mila docenti. È opinione oramai unanime che la Buona Scuola, definita da un sindacalista trentino “una scuola alla buona”, a fronte di investimenti significativi, non abbia portato effetti positivi e molti nodi restano al pettine. Il merito ai docenti è stato erogato solo a chi ha avuto incarichi formali (spesso svolti fuori dall’aula con funzioni organizzative), senza valorizzare i docenti migliori; il precariato non è stato azzerato, la mobilità è aumentata a dismisura, i concorsi non hanno prodotto le tanto desiderate assunzioni di giovani docenti. Tant’è che sostituito il ministro Giannini, reo di tutte le responsabilità e i fallimenti, è giunto al Miur il ministro Fedeli, a cui è stato dato il compito apparente di correggere gli errori della precedente gestione. 



Come sostiene Federico Fornaro, senatore Pd e capofila bersaniano al senato, il problema è però anzitutto politico e i punti su cui porre attenzione sono la chiamata diretta dei docenti da parte dei dirigenti scolastici e il merito. Si tratta dei due provvedimenti previsti dalla legge 107 che non vanno giù all’ala sindacale e alla sinistra del Partito democratico. Ora si capisce con più chiarezza perché sia stata scelta a reggere il Miur Valeria Fedeli, ministro senza laurea dei laureati italiani. Da buona sindacalista, ha scelto di tornare all’antico e fa rientrare dalla finestra la concertazione sindacale, che con Renzi era stata tenuta fuori dalla porta. Lo scopo non sembra quello di risolvere tutte le incompiute della Buona Scuola, ma quello di ricucire le ferite aperte all’interno del Pd. 



E così, sia i punti della 107 bocciati dalla Consulta (il metodo decisionale per l’edilizia scolastica e le competenze per la riforma 0-6 anni), sia le linee guida per la nuova Maturità, sia la chiamata in servizio e la formazione docenti, saranno compresi nel tradizionale decreto “milleproroghe” in preparazione e da varare entro il 31 dicembre. Serve tempo e come noto il metodo del convincere, del trovare soluzioni condivise è di lunga durata, anche perché la posta in gioco è la sopravvivenza stessa del Partito democratico, che ha sulle spalle la responsabilità del governo. Il tempo serve infatti anche a ricucire gli strappi causati dal Jobs Act e dalle esternazioni del ministro Poletti, perché sia l’eventuale nuovo referendum sul lavoro sia la riconquista del consenso tra i docenti italiani sono considerate priorità assolute nel Pd e, strano a dirsi, permettono una sorta di unità d’intenti tra maggioranza e minoranza interna. 



Cosa ne sarà dunque delle questioni più scottanti che l’attuazione della riforma scolastica del governo Renzi porta con sé? Il rinvio serve infatti anche a trovare nuove strade per il superamento della mobilità dei docenti. Gli ambiti territoriali (il superamento delle graduatorie e delle cattedre con ambiti da cui i dirigenti scelgono i docenti) e il vincolo di permanenza in un luogo di lavoro per tre anni, tanto osteggiati dalla Cgil e dagli altri sindacati della scuola, pare che debbano essere modificati. Secondo il nuovo corso non si deve arrivare allo scontro, ma è indispensabile ricucire e rimettere insieme i pezzi del partito, con la forte componente sindacale che nelle compagini della sinistra italiana ha sempre fatto capo alla Cgil. 

L’atto di indirizzo di Valeria Fedeli per il 2017, pubblicato pochi giorni prima di Natale, sul sito del Miur, è molto generico. Oltre alla retorica “implementazione e completa attuazione della legge 107” e al tema della mobilità del personale, si parla di “consolidamento dell’autonomia scolastica”, di “incentivare culture e prassi inclusive” a favore dei disabili e per “integrare alunni stranieri e sostenere le classi multiculturali”. Se a tali propositi si aggiungono il potenziamento dell’alternanza scuola-lavoro (di cui da più parti si chiede la modifica per la scarsa efficacia e farraginosità del sistema), l’innovazione digitale, la riqualificazione del patrimonio edilizio, sembra emergere, sotto la pelle del solito vocabolario ministeriale, anche una volontà di rallentamento nell’attuazione della legge 107. Alessandro Giuliani, sulle pagine di Tecnica della scuola, parla di un cosiddetto piano B. Non essendoci i tempi per un intervento legislativo, la strada maestra sarebbe quella contrattuale, con la quale — a fronte di aumenti stipendiali con il nuovo Ccnl — si andrebbero però ad azzerare merito, reclutamento e ruolo prioritario dei dirigenti, per tornare così a una situazione ante-Renzi. 

Il nuovo contratto tuttavia, anche se può divenire merce di scambio, non è per niente da demonizzare. Renzi e la Giannini, a fronte di tanti soldi investiti, avevano ottenuto poco e niente e si erano dimenticati della situazione economica dei docenti, i cui stipendi e carriere sono bloccati da anni, finiti già sotto i tagli dei governi Berlusconi e Monti. Ora, visto che anche la situazione pensionistica ha allungato la loro carriera di 6,8 anni in media, con una perdita del compenso medio di diverse centinaia di euro (passaggio al contributivo), una rivalutazione stipendiale con ritocchi alla progressione degli stipendi diviene necessaria e incontrerà sicuramente il consenso dei docenti.