Sono anni che rompono l’anima. Sempre più invadenti, frotte di pedagogisti che non mettevano piede in una scuola da quando finirono il loro liceo. Ma a volte ritornano, per pontificare sulla nuova scuola delle competenze. E sfasciare, abbarbicati alla moda del momento, tutto lo sfasciabile. Le parole d’ordine cambiano. Era troppo facile, un tempo, chiamarla “scuola media”: ora, in barba ai fondamentali princìpi educativi formulati da Massimo Troisi a proposito di Ugo e Massimiliano, si frequenta la “scuola secondaria di primo grado”; e i compiti in classe intanto hanno ceduto il passo a “verifiche in itinere semistrutturate”, “questionari a risposta aperta”, “prove autentiche”. Succede sempre così: prima cambiano le parole, poi scopri che cambiando le parole hanno cambiato le cose. O meglio: svuotando le parole svuotano le cose.
“Competenze” è, da almeno un decennio, il refrain degli insegnanti modaioli. Chiedi alle maestre del nido se la bambina ha mangiato, e loro anziché risponderti sì o no tirano fuori la storia delle competenze di autonomia su cui stanno lavorando. Vai in una casa editrice a proporre qualcosa di diverso dalle antologie di italiano in circolazione, devastate da 250 pagine su 300 zeppe di chiacchiere vacanti sui testi, e per avvalorare la tua tesi prendi a modello un’antologia di qualche anno fa della medesima casa editrice: si mettono a ridere, e ti ripetono che senza l’apparato didattico modellato sulle competenze europee non si vende.
“Imparare a imparare”, “progettare”, “collaborare”, “risolvere problemi”, “spirito di imprenditorialità”, e poi — meravigliosa —: “comunicare nella madrelingua” come competenza finale del liceo (scusa: quello non sarebbe un prerequisito? non dovremmo supporre che uno che si iscrive al liceo parli già in italiano?). Il tutto condito dall’aura della novità, manco venissimo da decenni in cui la vecchia scuola sfornava invece trogloditi. Pomeriggi interi di formazione obbligatoria tenuti da personaggi che non hanno mai insegnato, come se un giornalista sportivo potesse allenare una squadra di calcio; 125 ore di disturbo dell’attività propria della scuola (fatta di materie e di studenti, realtà inesauribili e mai conosciute troppo bene), che ti lasciano solo la voglia matta di comunicare nella madrelingua tutto il tuo disgusto verso questi quacquaraquà, di imparare a impalare, di progettare e soprattutto di gettare a mare le loro farneticazioni e risolvere così uno dei più atroci problemi della scuola.
La scuola del competere, non più la scuola del conoscere. La scuola mirata alla “spendibilità” nel mondo del lavoro delle competenze acquisite a scuola. Qui sta il cortocircuito: le tanto declamate competenze si dovrebbero acquisire attraverso le materie tradizionali. Ciò che conta, per esempio, nell’insegnamento dell’italiano è che i ragazzi acquisiscano la competenza “comunicare nella madrelingua”. Ma, scusate, per strappare un ragazzo al suo esprimersi ruttando, dobbiamo proprio fargli leggere I sepolcri di Foscolo e Il principe di Machiavelli? A questo punto cambiamo le materie, diamogli da leggere Ligabue e Gigi D’Alessio, e non se ne parli più.
La propaganda delle competenze non vede che queste (straordinarie) materie non si accordano con quelle (meschine) finalità: se “carmina non dant panem”, se italiano, storia, filosofia, latino, arte, eccetera si fondano sulla loro “inutilità” rispetto al mondo pratico, come si può presumere di inculcare attraverso quelle stesse materie qualcosa di “utile”? Come si può pretendere il negotium da ciò che per definizione appartiene all’otium? Ditemi, vi prego, che differenza esiste fra insegnare il primo canto dell’Inferno per competenze anziché per conoscenze: un tempo leggevamo delle tre fiere per conoscere il mondo di Dante e attraverso quel mondo il nostro; e adesso? dovremmo fare “prove di realtà” del tipo “cosa faresti se incontrassi una lupa per strada?”.
Nessuna risposta. Solo la litania delle competenze, degli insegnanti che devono diventare facilitatori e animatori, del sapere che non si trasmette perché casomai i saperi — al plurale — si costruiscono, della lezione frontale che è un modello sorpassato (e giù ore e ore di lezione frontale contro le lezioni frontali). Chi cambia scuola ogni anno, e ha frequentato due anni di Ssis e ha fatto pure l’anno di prova, ha assistito a mille lezioni identiche, riproposte praticamente con le stesse slides dal docente di docimologia, dalla dottoranda del docimologo, dal fratello del docimologo. Un’eterna Ssis, un eterno anno di prova, un incubo ricorrente.
Un tempo Fantozzi e i suoi colleghi erano costretti, dal professor Guidobaldo Maria Riccardelli, a sorbirsi La corazzata Kotiomkin, ma anche ora, negli squallidi pomeriggi in auditorium, chi può si attrezza di plaid, o di smartphone in luogo delle vecchie radioline, e non mancano i Filini e i Calboni che elogiano non più “l’occhio della madre” o “il montaggio analogico” ma le differenze fra UdA e UD (tradotto: Unità di Apprendimento vs Unità Didattica) o che discutono un’ora intera sulla rubrica di valutazione della competenza trasversale di cittadinanza “imparare a imparare”, per decidere se nella sottogriglia sui livelli base, medio e avanzato sia meglio, per stabilire i parametri degli indicatori dei descrittori, usare “abbastanza corretto” oppure “perlopiù corretto”.
Ma di cosa diavolo parlate? La distanza dalla realtà è siderale, la fuga dei cervelli dalle teste di questa gente è un dato di fatto. Ridicoli, cani al guinzaglio di assurdità tali che chiamarle idiozie è perfino un complimento, perché attribuirebbe un valore di realtà seppur negativa a roba che invece è nulla, è non essere. Come rieducarli ad aprire gli occhi sulle loro materie e sui loro studenti? Tutti gli insegnanti della megaditta aspettano urgentemente l’eroe che li costringa alla proiezione di Giovannona Coscialunga, L’esorciccio e La polizia s’inkazza, dopo aver gridato che, come già La corazzata Kotiomkin, anche le chiacchiere sulle competenze sono “una cagata pazzesca”.