Qualche giorno fa un’insegnante di lettere in un liceo classico mi ha raccontato un aneddoto istruttivo. Questa mia amica ha l’ottima abitudine di assegnare versioni di latino in classe senza vocabolario, naturalmente con la possibilità che l’alunno chieda lumi su forme meno comuni. Un ragazzo (terzo anno) le ha chiesto che cosa volesse dire cingebant. «Ragionaci un po’ su: che cosa ti dice l’uscita in ebant?». «Che è un imperfetto». «Giusto! Prova a immaginare quale sia il presente». «Forse cingo?». «Certo!». Ma l’alunno, che mi si dice essere bravo, continuava a restare perplesso: il problema non era il latino, ma l’italiano; per lui cingere era un verbo misterioso.
C’è un livello di lingua (non esattamente costituita di parole arcaiche o specialistiche) che rischia di uscire dall’orizzonte dell’adolescente scolarizzato, il quale può non essere in grado di collegare a certe parole altre con la stessa radice, magari molto più comuni (le cinture di sicurezza, la cinta e il recinto, la cinghia ecc.). Le conseguenze sono gravi: un’intera porzione di saperi e di concetti, che va oltre le 2000 parole che ci servono per sopravvivere nel parlato quotidiano, potrebbe restare inerte, sterile, morta.
Credo sia opportuno fissare alcuni punti:
1. chi non possiede bene la propria lingua materna avrà difficoltà con qualsiasi altra disciplina e maneggerà ancora peggio l’inglese. Assicurare questo obiettivo deve essere prioritario per qualsiasi tipo di scuola;
2. l’inglese è certamente importante; occorre favorire le occasioni extrascolastiche per apprenderlo (cartoni animati in inglese nella prima infanzia, scambi scolastici con paesi esteri ecc.) e, a scuola, renderne obbligatorio l’uso nelle lezioni di lingua straniera fin dai primi approcci. La pratica del Clil va però usata con prudenza ed è certamente controindicata per tutte quelle discipline, dalla storia alla letteratura, in cui una lezione efficace si fonda sulla piena padronanza di tutte le risorse espressive da parte del docente. Altro che B2! Servirebbe un livello C2, che è quanto dire una padronanza che si avvicina a quella di un nativo: un obiettivo non facilmente realizzabile, che comunque richiederebbe diversi anni e uno sforzo economico probabilmente sproporzionato per concretizzarsi;
3. accanto all’importanza propriamente cognitiva della lingua madre c’è, per l’italiano e per qualsiasi altra lingua, una funzione identitaria, come simbolo di appartenenza a una comunità. Proprio questo aspetto giustifica l’attenzione che, nel triennio, si dà ai grandi classici letterari, da Dante a Petrarca. Sono certamente autori di grandi capolavori artistici; ma lo sono anche Shakespeare, Goethe, Tolstoj, che oltretutto leggiamo in comode traduzioni moderne. Se riteniamo necessario, come insegnanti, far cimentare i nostri alunni sulle parole effettivamente usate da Dante è perché pensiamo che quelle parole siano in grado di farci sentire la continuità, di là dai tanti cambiamenti intervenuti, fra il Medioevo, quando l’Italia non esisteva come nazione, e l’età contemporanea. Quelle parole sono parte costitutiva del nostro passato di cittadini con una storia culturale condivisa.