La maestra entra in classe e richiama su di sé l’attenzione: «One, two, three, eyes on me». «One, two, eyes on you!», rispondono in coro i bambini. Non è una lezione “di” inglese: è una lezione “in” inglese. Una lezione di scienze, per la precisione (ma potrebbe essere anche di geografia, così come di arte). Prima ancora che la legge 107 — la cosiddetta “Buona Scuola” — introducesse il potenziamento della lingua inglese per le classi quarte e quinte della scuola primaria, in Lombardia già dal 2010 sei istituti comprensivi sperimentavano il bilinguismo fin dalla prima elementare. Il Corni Lora Lipomo di Como, il Fermi di Villasanta, il Ciresola e il Diaz di Milano, il Cialdini di Meda e il Copernico di Corsico, sei scuole selezionate su un totale di 42 richiedenti, sono infatti il “Gruppo pilota 1” del “Bilingual education Italy/Istruzione bilingue Italia (Bei/Ibi)”, un progetto organizzato dall’Ufficio scolastico regionale della Lombardia grazie ad un protocollo d’intesa siglato il 25 febbraio 2010 con la direzione generale per gli ordinamenti scolastici e per l’autonomia scolastica del ministero dell’Istruzione e il British Council, ente culturale del governo britannico.



Il progetto del bilinguismo, che tutti e sei gli istituti, terminata la fase pilota, hanno comunque mantenuto nella loro offerta formativa (anche se in alcuni casi con denominazioni differenti), prevede che almeno un quarto delle ore di lezione vengano svolte interamente in inglese: una vera e propria immersione linguistica in cui alcune materie (scienze e geografia, a volte anche arte e immagine) vengano interamente svolte in inglese da docenti in possesso della certificazione almeno di livello B2 del Quadro comune europeo di riferimento per le lingue del Consiglio d’Europa. Niente di traumatico per i piccoli scolari: canzoncine, disegni, contenuti multimediali accompagnano i bambini approfondendo gradualmente i contenuti durante tutto il percorso.



Ora che il Gruppo pilota 1 è arrivato al primo anno della scuola secondaria di primo grado è tempo di bilanci. «Per noi docenti il Bei è stato molto impegnativo, specie all’inizio, perché non esisteva materiale e quello che c’era in lingua andava didattizzato per poter essere fruito da bambini non madrelingua. Bisognava cercare immagini per illustrare i concetti che avremmo spiegato in inglese, adattare testi per renderli comprensibili a bambini italiani»: Letizia Fossati, una delle tre pioniere del bilinguismo all’Istituto Ciresola di Milano nonché formatrice per la metodologia di insegnamento della lingua inglese anche in ambito Clil (Content and language integrated learning), ricorda le lunghe nottate passate a vagliare e adattare i materiali per il progetto. Tutt’altro che semplice anche entrare in classe e parlare ai bambini, anche di prima elementare, solo in inglese: «Il primo anno si fa un po’ fatica perché ti devi imporre di farlo, poi man mano diventa innaturale parlare invece in italiano».  



E per quanto riguarda l’apprendimento? «Bisogna aiutare i bambini a passare dalle abilità più semplici a quelle più complesse. Ha presente la tassonomia di Bloom? Le abilità cognitive sono tante e vanno tutte sviluppate, ma non posso pretendere che un bambino sappia fare una cosa immediatamente: devo prepararlo man mano, accompagnarlo sulla strada dell’apprendimento, iniziando con le cose più semplici per arrivare gradualmente a quelle più complesse». 

Una vera e propria missione: chi scrive ha diretta esperienza di insegnanti Bei entusiaste nel portare avanti quotidianamente un progetto tutt’altro che semplice, in classi decisamente numerose (e spesso attive, magari “a distanza”, nel seguire il progetto anche quando indisposte). Anche Letizia Fossati non nasconde la propria passione e dalle sue parole traspare evidente il coinvolgimento: «Nel progetto Bei utilizziamo molto, specie all’inizio, la Total physical response (Tpr), un metodo glottodidattico elaborato negli anni 60 che prevede il totale coinvolgimento fisico dello scolaro. I bambini ascoltano le canzoncine del Jolly phonics e mimano le azioni, interiorizzando la fonetica inglese giocando». Progressivamente, attraverso attività di storytelling, presentazioni multimediali, schede ed elaborazioni proprie i bambini arrivano ad esprimere autonomamente in inglese tutti i concetti e i contenuti — anche quelli non propriamente semplici — propri del programma di scienze e di geografia.

E una volta concluso il ciclo primario? Come fare per non rallentare i bambini? Il punto di arrivo, la prima media, diventa il punto di una nuova partenza. I sei istituti del Gruppo pilota 1 hanno avviato al loro interno il progetto Clil Excellence, che prevede l’inserimento, nei curricoli di scienze e geografia (anche arte in alcuni istituti), di moduli di approfondimento in co-docenza con l’insegnante di inglese: «Ad esempio — spiega Fossati — nell’ambito dello studio sulle montagne, viene svolto un modulo interamente in inglese che riguarda nello specifico le montagne europee». Letizia Fossati sottolinea le cosiddette “quattro C” della metodologia di cui è formatrice, «Content, i contenuti disciplinari, communication, la capacità comunicativa, orale e scritta, che i bambini sviluppano, cognition, le capacità cognitive e di pensiero, culture, la contestualizzazione dei contenuti. Perché — esemplifica — per gli italiani il cavallo è un animale da fattoria, ma per gli inglesi lo è da compagnia. La metodologia Clil riconosce che i bambini hanno intelligenze diverse — conclude Fossati, accennando alla teoria di Gardner sulle intelligenze multiple (logico-matematica, linguistica, spaziale, musicale, cinestetica, interpersonale, naturalistica, etica, filosofico-esistenziale) — sia quando affrontano un argomento con l’insegnante, sia quando imparano da soli, sia nella verifica. Ogni intelligenza va rispettata e valorizzata».