Caro direttore,
nella patria delle lingua di Cicerone e di Omero (attraverso la Magna Grecia), ci si scandalizza se a un docente del terzo millennio si chiede di scrivere in una lingua straniera a sua scelta: l’Italia è la patria delle polemiche gratuite e delle deroghe a qualsiasi forma di regola o di legge. Se uno contasse sul pallottoliere tutti i modi che il genio italico si è inventato per immettere in ruolo docenti, ci vorrebbe un Expo come fiera delle vanità!
“Un prof di greco o latino — leggo su un articolo del 6 febbraio 2015 del Corriere della Sera — si troverebbe così a simulare una lezione su Cicerone o Demostene in inglese; un insegnante d’italiano dovrebbe invece spiegare Dante in spagnolo. E magari un prof bilingue rischia di essere preferito a uno meno capace nella lingua straniera ma più preparato in storia”.
Ma siamo agli assurdi! Come sentenziava Tertulliano, “Credo quia absurdum”. Crediamoci dunque. Il Miur spende euro a profusione per formare docenti nel Clil con corsi gratuiti per docenti di ruolo. Clil, come ormai tutti sanno, significa “Content and Language Integrated Learning”, cioè apprendimento integrato di lingua e contenuto. Nella glottodidattica della lingue moderne, il Clil è una metodologia che consiste nell’insegnamento di una disciplina non linguistica mediante una lingua straniera, con un doppio obiettivo: apprendere il contenuto disciplinare e, nello stesso tempo, la lingua straniera. Dietro a questo acronimo di cui, insieme a molti altri, la scuola italiana abbonda come il riso sulla bocca degli sciocchi, si nasconde, a voler avere una visione ottimistica delle umane sorti progressive del sistema scolastico italiano, un approccio di educazione interculturale, che consente di promuovere il plurilinguismo.
Nella riforma della scuola secondaria di secondo grado, avviata a partire dal 2010 sotto il ministro Gelmini, (che rima con Giannini), il Clil è stato sottoposto a una sua precisa normativa fino a due circolari del 2013 nelle quali vengono fornite indicazioni operative agli Uffici scolastici regionali. Nulla di male se nel bando di concorso, il “merito” degli aspiranti docenti venga testato anche sulle lingue moderne a scelta del candidato.
A leggere il blog dell’on. Silvia Chimienti, che prima di ottenere il seggio in parlamento per M5s ha fatto il primo ciclo del Tfa (la scuola dei professori, per così dire), anche il sottosegretario Miur Faraone dovrebbe rinfrescare le nozioni della lingua patria: in una dichiarazione al Fatto Quotidiano Faraone avrebbe detto “…ingozzare i ragazzi di junk food pur di non uscire neanche un centesimo per il funzionamento delle scuole…”. Ma “il verbo ‘uscire’ in italiano è intransitivo — così commenta la docente-parlamentare, abilitata della categoria ‘tieffina’ —, non ammette il complemento oggetto. Si può utilizzare nel parlato ma non se si è sottosegretari all’Istruzione e se si sta rilasciando una dichiarazione ad un quotidiano nazionale che leggeranno in moltissimi. C’è da consolarsi, dunque, se non si supererà il prossimo concorso a cattedra. Il mancato superamento escluderà dall’insegnamento della materia che già si insegna da 10 o 20 anni nelle scuole ma nulla osterà alla carriera da sottosegretario”.
Ma a voler essere malevoli, almeno, dal punto di vista della correttezza della nostra (povera) lingua, potremmo dire che il pesce puzza dalla testa: tutti noi forse ricordiamo il videomessaggio di Renzi, che con i gessetti in mano, scriveva sulla lavagna i punti essenziali della riforma della scuola. Ecco, Renzi partiva dall’alternanza scuola-lavoro per proseguire con la “cultura umanista”. Uno strafalcione: il sostantivo al posto dell’aggettivo!, è stata la critica sardonica scatenatasi sul web verso il premier; il quale scherzava, il 3 marzo 2015, sulla parola “curriculum”, segnando un errore in rosso. Infatti, durante una gremitissima conferenza stampa, in una delle slide che mostravano la riforma della scuola, tutti i giornalisti lessero: “i curriculum” invece di “i curricula”. Renzi ha avuto il buon gusto di scusarsi immantinente, mentre la Giannini interveniva con una battuta: “Siamo scivolati sul neutro plurale, troverò il colpevole…”.
E chi sarà il colpevole, si staranno chiedendo tutte le persone di buona volontà? Ovvio: i docenti! Questa sarebbe la risposta qualunquista: se tutti parlano più o meno la lingua italiana o conoscono maluccio quella latina, è perché ci vuole una scuola buona, anzi la Buona Scuola. Ricordiamo con epica nostalgia i vecchi stupidari che raccoglievano le castronerie e gli errori degli studenti, apparsi con grande successo editoriale negli anni Ottanta e Novanta. Quegli studenti sono cresciuti… e sentiamo e vediamo gli effetti.
Per ritornare alle lingue moderne, direi: testiamo pure il livello di competenza e conoscenza linguistica dei futuri docenti, che a loro volta furono studenti in quegli anni. In un paese che non brilla certo sempre per giustizia, sarebbe equo dare un peso valutativo minoritario alle due domande in lingue rispetto alle altre contenutistiche-pedagogiche-metodologiche. Naturalmente, non per i docenti di lingue straniere…