Per il futuro erede al trono d’Inghilterra, il piccolo George, i genitori William e Kate hanno scelto una scuola dell’infanzia montessoriana, abbiamo letto su Repubblica. Non è un caso isolato: moltissime famiglie britanniche e americane gradiscono affidare i figli al modello educativo messo a punto dalla pedagogista italiana un secolo fa. La notizia dell’opzione della famiglia reale ha fatto improvvisamente riscoprire una delle eccellenze italiane, spesso ingiustamente dimenticata e molto più nota all’estero che in Italia. 60mila scuole ispirate alla pedagogia montessoriana in tutto il mondo, solo duecento in funzione in Italia. 



Mentre studi e ricerche intorno alla studiosa marchigiana continuano a moltiplicarsi in varie parti del pianeta, da noi si registra un interesse distratto con pochi — pochissimi — studiosi impegnati ad attualizzare e rilanciare Montessori, sempre più spesso confinata ormai nelle storie della pedagogia.  

Ma la dimenticanza o sottovalutazione di Maria Montessori non è l’unico caso, anche se il più eclatante, di come non siamo in grado di tesaurizzare le nostre migliori e più originali pratiche educative, frutto di una tradizione che risale agli inizi del secolo scorso. Vantiamo infatti altre esperienze nell’educazione dell’infanzia che ci invidiano all’estero, da noi confinate in una nicchia conosciuta solo dagli specialisti. Basta pensare alle scuole infantili di Reggio Emilia che Howard Gardner, uno dei più celebri psico-pedagogisti statunitensi e noto teorico delle intelligenze multiple, ha fatto conoscere in mezzo mondo con i suoi saggi e, se pur con minore risonanza internazionale, alle esperienze delle centinaia di scuole promosse nello spirito di Rosa e Carolina Agazzi. 



Per non parlare di eccezionali singoli maestri che nell’ultimo mezzo secolo hanno elaborato e praticato modelli scolastici d’avanguardia, dal maestro di “Non è mai troppo tardi”, Alberto Manzi, a Mario Lodi, da Alfredo Giunti a Bruno Ciari, insegnanti pieni di creatività capaci di disegnare forme di apprendimento molto originali centrate sul bambino che apprende intorno alle quali si sono sviluppate iniziative che tra gli anni 60 e 90 hanno coinvolto migliaia di docenti. Su tutti è poi calato il silenzio. Perché? 

Due possibili risposte. La prima: negli ultimi decenni dalla pedagogia della libertà, della creatività, della valorizzazione della capacità — questo il tratto unificante delle pratiche innovative di cui stiamo parlando — si è gradualmente transitati verso pedagogie della prestazione. L’enfasi con cui oggi, per esempio, è accompagnata la nozione di competenza si svolge in senso divergente rispetto all’approccio primariamente orientato al potenziamento delle capacità personali. Le stesse pratiche personalizzanti — il cui scopo dovrebbe essere quello di tenere conto delle specificità individuali — sembrano spesso più orientate a far apprendere “di più” che a far apprendere “meglio”. 



La seconda: a partire dagli anni 60 la cultura pedagogica accademica italiana — quella, tanto per essere chiari, praticata e insegnata nelle università e in grado di influenzare anche i centri decisionali ministeriali — ha perso vigore e originalità e si è andata appiattendo sugli schemi e le formule psicopedagogiche anglosassoni, soprattutto statunitensi. L’elenco non è breve: diffusione del mastery learning, valorizzazione delle teorie della programmazione curricolare, esasperazione delle procedure valutative, trasformazione della figura del maestro in professionista dell’organizzazione didattica e del dirigente in amministratore scolastico. E infine la visione subalterna della capacità personale rispetto al primato attribuito alla performance misurabile.

A fronte dell’infeudamento comportamentistico e utilitaristico nessuna sorpresa, dunque, se Maria Montessori rischia di essere vista come una sopravvissuta e se insieme a lei viene smarrita una grande tradizione di pedagogia italiana.