I cari amici dei Colloqui Fiorentini mi chiedono di dare una testimonianza in questo convegno, ma ogni incontro è un modo di crescere, insegnando, per cui vorrei ricavare da questo mio intervento qualche riflessione generale e attuale che penso possa essere di comune utilità. Credo di avere di fronte persone che operano nella Chiesa, con particolare attenzione alla scuola o, se volete, persone che operano nella scuola con particolare attenzione a ciò che accade nella Chiesa. Ho insegnato a lungo in università a Pavia, a Ginevra, all’Aquila, a Trieste e dal 1996 a Venezia, avendo però prima insegnato, per mia fortuna, qualche anno nelle medie superiori. Ho quindi sempre avuto una nostalgia dei docenti liceali, come quelli che organizzano I Colloqui Fiorentini, perché i professori di liceo — nei limiti della mia esperienza — generalmente superano per calore umano e flessibilità culturale i colleghi universitari. Qualche volta mi è capitato di essere interpellato per fare una lezione agli studenti dell’ultimo anno delle superiori: era di solito un loro insegnante che mi invitava a parlare ai ragazzi di Manzoni o D’Annunzio o di altri autori dell’Otto e del Novecento in vista dell’esame di maturità. Quando ho ricevuto l’invito degli amici dei Colloqui Fiorentini, confesso che ho accettato senza sapere che mi sarei trovato in una situazione molto diversa. Non era solo una finalità utilitaria che presiedeva a questi Colloqui, non si trattava solo di preparare un esame di maturità: si mirava a qualcosa che andava oltre, che avesse un respiro più alto; un confronto intellettuale tra studenti e docenti, un reciproco arricchimento.
Innanzitutto il primo impatto è stato un vero choc: c’era, nell’Auditorium del Palazzo dei Congressi, una folla oceanica, ed era solo parte degli studenti e degli insegnanti che assistevano alle relazioni, perché moltissimi altri seguivano l’incontro da altre sale collegate in videoconferenza. E questo fatto, in una persona pure con la barba già incanutita e abituata a parlare in pubblico, dava un primo, seppur piacevole, sgomento. Ma la cosa più sorprendente era trovarmi di fronte un oceano umano silente, la cui attenzione era palpabile; si poteva tagliare l’aria con un coltello, tanto era densa di tensione mentale. Davvero non volava una mosca, fino a un applauso finale: uno scroscio, una esplosione di entusiasmo, che i ragazzi dedicano di solito al goal della squadra per cui tifano o alla performance del loro cantante prediletto. Una gioia vitale!
Gratificante e quasi commovente, poi, la qualità degli interventi pubblici degli studenti, ma soprattutto di quelli privati. Al termine della mia relazione era un continuo avvicinarsi di ragazzi che chiedevano, di insegnanti provenienti da tutte le regioni d’Italia, accomunati dalla passione umanistica. Il morale ne risultava sollevato, e invogliava a rivalutare con orgoglio la figura dell’insegnante: nobilissimo mestiere, pur mortificato dalla burocrazia e incompreso da tanta parte della società; mestiere che un tempo si diceva vocazione: farsi cinghia di trasmissione del sapere, il quale è la fiaccola che le generazioni si passano di mano in mano come i corridori di una staffetta.
È dono reciproco, quello della buona scuola, perché insegnando si impara, e perché i docenti, stando con i giovani, restano in un certo senso sempre giovani. Collante forte di questo rapporto è la letteratura, purché la si consideri per la sua ricchezza, per le sue risorse di umanità. Il prof. Pietro Baroni ha citato giustamente Cvetan Todorov, Maria Zambrano e George Steiner, che nei loro scritti parlano di letteratura come “vera presenza”: e la letteratura che si studia ai Colloqui Fiorentini è proprio vera presenza.
Nella mia carriera di studioso ho attraversato varie stagioni: ho subito mio malgrado quella in cui i libri venivano maneggiati indossando — per così dire — la tuta blu, per cercarvi il riflesso della politica, l’eco delle lotte di classe. Certo, la letteratura è anche specchio delle tensioni sociali, ma è altro, ben altro!
Poi venne la fase in cui alla letteratura ci si accostava indossando il camice bianco, reggendo i reagenti, il bisturi dell’anatomista, come se il testo letterario fosse un cadavere da sezionare. Ora, se accostiamo un testo solo per stilare l’elenco delle figure retoriche o la lista delle sequenze narrative, cosa ci dà quel testo se non noia? Lo scrittore ci lancia messaggi attraverso il tempo, non solo exempla di strutture linguistiche o scelte grammaticali: quando, provvisti dei primi rudimenti latini, ci facevano leggere la favoletta di Fedro — “Ad eundem rivum pervenerunt lupus et agnus” con quel che segue — e ci chiedevano solo se “eundem” era accusativo di idem-eadem-idem, o ci sciorinavano il paradigma del verbo pervenio, ci avevano davvero portato dentro quel testo? Occorreva capire che, in quella storiella, Fedro denunciava uno scandalo, anzi due; la violenza e la menzogna, ché scandaloso non è solo il fatto che il lupo divori l’agnello, ma che pretenda pure di aver ragione. Nelle purghe staliniane non bastava condannare a morte un innocente: prima gli facevano confessare, immaginate come, di essere un nemico del popolo. Per gli analisti in camice bianco la letteratura era fatta solo di carta; presi dal particolare, perdevano il senso globale di un libro, la vera presenza di uno scrittore morto magari da secoli, ma che continua a parlarci proprio come vera presenza. Una letteratura di carta contro una letteratura viva: se mi è permesso, voglio ricordare che, pur avendo privilegiato per tanti anni pubblicazioni di tipo scientifico, universitario, non ho mai perso di vista la scuola superiore, allestendo nel corso del tempo tre antologie per una casa editrice cattolica: anni fa Lo spazio letterario, poi Il valore letterario, recentemente Vivo scrivo, che è fra l’altro una frase di D’Annunzio. Intendevo dire, con quei titoli, che la letteratura vive nello spazio, ma deve anche avere un suo spazio; che i testi recano in sé dei valori; che gli scrittori interessano ai giovani se questi capiscono che hanno a che fare con la vita.
Allora io ho capito che ai Colloqui gli studenti stavano attenti, perché erano stati preparati dai loro insegnanti a studiare quei testi, come qualcosa che serviva alla loro vita e alla loro conoscenza, perché ogni incontro, se è un vero incontro, cambia qualcosa della mia vita. La grande letteratura è infatti fonte di conoscenza, trampolino cognitivo, acceleratore formativo. Al di là delle figure retoriche, delle sequenze narrative, cerchiamo la sostanza del testo, il cuore e la mente dell’autore che parla a noi, dal suo allora al nostro ora. La sottolineatura del valore conoscitivo e vitale del testo è molto presente nell’esperienza dei Colloqui Fiorentini. Dei quindici anni del convegno, io ho vissuto solo gli ultimi: fui chiamato per Gabriele D’Annunzio e poi per Umberto Saba. Ma già il modo di pensare questi programmi è significativo. Avete visto sullo schermo alle mie spalle scorrere i titoli delle varie edizioni dei Colloqui. Al nome dell’autore segue, a mo’ di sottotitolo o didascalia, una citazione adamantina, ad alta densità; c’è un’idea-guida che invita a pensare. Quello che compare ora sullo schermo contiene, nella citazione, un interrogativo capitale: Cesare Pavese. “Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?”. E quali tracce si suggerirono per scavare nei narratori? Ecco qualche esempio: Giovanni Verga: il semplice fatto umano farà pensare sempre; Luigi Pirandello: Personaggi in cerca di autore. E i titoli scelti per i poeti? Giovanni Pascoli e la misteriosa ansia comune; Giuseppe Ungaretti: “cerco un paese innocente”; Montale e la ricerca del varco: docenti e studenti a confronto. Quest’ultimo sottotitolo coglie perfettamente due caratteristiche dei Colloqui: la prevalenza di uno spirito euristico, non precettistico; il carattere dialettico e fraterno del dialogo tra professori e allievi. Un confronto costruttivo, perché gli uni e gli altri avevano lavorato per tempo sul tema suggerito, sul terreno da esplorare con una bussola in mano.
In tal modo alunni e docenti sono invogliati non solo ad apprendere una serie di nozioni sull’autore, ma ad approfondire una chiave interpretativa, a raggiungere il cuore del testo, a sentire l’autore come una vera presenza con cui dialogare, nel consenso o nel dissenso. Anche la relazione su D’Annunzio mi venne assegnata con un titolo preciso: “Il Piacere” di D’Annunzio: “Habere non Haberi”, cioè “Avere e non essere posseduti”. A partire da un titolo di questo genere, che consiste in una citazione dello stesso autore, nella lettura del testo si poteva far capire ai ragazzi che il protagonista del romanzo, l’estetizzante ed edonista Andrea Sperelli, trasparente doppio dell’autore, che tanto seduce gli adolescenti, si rivelava alla fine un Narciso che amava solo se stesso, un fallito. Perché chi in amore vuole avere, senza essere avuto, chi concepisce l’amore come una partita in cui il dare e l’avere non si bilanciano, finisce per amare solo se stesso e restare solo. Sperelli fa l’amore con Maria Ferres pensando di abbracciare Elena Muti e pronunciando sbadatamente il nome dell’ex-amante: questa evasione fantastica, questo tradimento mentale gli fa perdere la donna che aveva sedotto e che lo amava. Siccome il cuore dei ragazzi batte d’amore, essi leggono con attenzione D’Annunzio: guidati a penetrare il testo, trasformeranno la vicenda dell’artista-seduttore in una lezione di cui far tesoro per la loro vita sentimentale, non solo per discettare brillantemente all’esame di maturità sul romanzo esemplare del decadentismo italiano.
(1 – continua)
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Il testo è l’intervento dell’autore in occasione della presentazione dei Colloqui Fiorentini al 5° Convegno Ecclesiale Nazionale “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”, indetto dalla Cei a Firenze, dal 9 al 13 novembre 2015.