Troppo denso di storia il libro di Giorgio Chiosso intitolato La pedagogia contemporanea, edito da La Scuola, per poterlo ulteriormente concentrare in un articolo. Il rimedio, in questi casi, è la lettura diretta, cui una recensione può preparare. Ed è ciò che si propongono le note che seguono.
Chi lo dovrebbe leggere? Gli insegnanti e coloro che studiano per diventarlo. Li aiuta a rendersi conto degli atti che compiono e delle procedure che adottano, quando entrano in una classe di ragazzi. E’ ovviamente presente anche un fitto dialogo interaccademico “tra pari”, nel quale tuttavia si può inserire, senza sentirsi un intruso, chiunque si occupi per vocazione/mestiere di educazione, formazione, istruzione. Perché anche gli accademici, siano essi pedagogisti, specialisti della formazione e della didattica, cognitivisti, comportamentisti, neurobiologi, sociologi o economisti dell’istruzione hanno pur sempre a che fare tutti quanti con “una persona” in carne ed ossa, con le giovani generazioni che cambiano, che parlano e gridano il proprio presente. Tutti hanno/abbiamo a che fare con la domanda, implicita e esplicita, presa in carico o rifiutata, che il Dio della Genesi rivolge a Adamo in fuga: “uomo, dove sei?”.
La domanda sul “dove” interroga sull’essenza dell’uomo e sulla sua collocazione del mondo. E’, grosso modo, il titolo della conferenza di Max Scheler del 1927 Die Stellung des Menschen in Kosmos. Dalle risposte a tale domanda dipendono l’educazione, la coltivazione, la cura dell’uomo. Le risposte sono le teorie pedagogiche e le prassi educative, di cui Chiosso traccia sinteticamente il percorso del ‘900. Non si tratta di antropologia filosofica pura, semmai di “antropologia applicata”, perché i mutamenti socio-economici e culturali determinano l’essenza umana, la incarnano nella storia. Donde il divenire degli approcci educativi e teoretici.
Il libro di Chiosso ci accompagna lungo gli anni su due binari: quello delle teorie e quello dei mutamenti strutturali, tra i quali anche quello dello sviluppo del sistema scolastico. Scorrono sullo schermo, ancora in bianco e nero, il neo-idealismo gentiliano, il personalismo cattolico nella versione Mounier/Stefanini, il deweysmo, l’attivismo pedagogico nelle versioni laica e cattolica, il marxismo. Siamo all’indomani della seconda guerra mondiale, l’Italia è in macerie, occorre ricostruire il Paese sul piano economico e su quello morale. Lo Zeitgeist è quello della ricostruzione della civiltà, della “renovatio” della “civitas christiana”, della “nouvelle chrétienté” sulla scia di Jacques Maritain, o dell’ utopia comunista dell’ ”homo novus” marxiano. I lasciti degli anni Trenta vengono utilizzati quale cassetta degli attrezzi per affrontare gli anni Cinquanta. Nel Pci già all’indomani del 25 aprile si apre la discussione tra Concetto Marchesi, su posizioni gentiliane, e Elio Vittorini, su posizioni deweyane. Togliatti chiuderà bruscamente la partita a favore di Marchesi già nel VI Congresso del Pci degli inizi di gennaio del 1946. Solo con l’istituzione della scuola media unificata si chiuderà la querelle, con la vittoria ai punti di Vittorini.
Ma qui siamo già negli anni Sessanta. La società italiana, spinta dal “miracolo economico”, si protende nelle braccia del consumismo, della secolarizzazione, dell’eclissi del sacro, secondo il testo di Sabino Acquaviva, morto recentemente. Viene avanti il centro-sinistra, dopo gli anni del centrismo. Come mantenere un’identità collettiva di popolo, di fronte ai fenomeni di disgregazione individualistica? L’elaborazione pedagogica muta e si frastaglia su molti piani: quello etico-civile di Guido Calogero, Danilo Dolci, Aldo Capitini; quello ad impronta socio-pedagogica di Giuseppe Flores d’Arcais, Gaetano Santomauro, Aldo Agazzi, che propongono un’interpretazione comunitaria e sociale del personalismo, mentre i Salesiani sviluppano la riflessione e la prassi attorno alla questione giovanile del rapporto tra istruzione e lavoro; quello pre-politico di Lamberto Borghi, Aldo Visalberghi e Raffaele Laporta, che riprendono il filone democratico-illuminista di Dewey, di cui alfiere sarà Tristano Codignola; quello gramsciano-marxiano di Lucio Lombardo Radice, di Alighiero Manacorda e di Dina Bertoni Jovine.
Arriva il ’68, con la sua carica di rifiuto e di utopie. La particella-chiave è “anti”: anti-capitalismo, anti-stato, anti-scuola, anti-pedagogia, anti… Da Marcuse, a Illich, a don Milani. Incomincia qui la fine delle grandi “narrazioni” e delle ideologie, viene avanti un concetto di libertà totale, di autodeterminazione assoluta, che obbliga i tre filoni fondamentali (cattolico, laico-illuminista, marxista) a fare i conti in modo nuovo con il vissuto sociale. Così il tradizionale personalismo cattolico è obbligato a passare ad un’idea di persona meno metafisica e deduttiva, verso un “personalismo senza dogmi”. Chiosso lo chiama personalismo di seconda generazione — oggi si direbbe, in linguaggio “digitale”, personalismo 2.0 — più attento alla fenomenologia concreta dell’esperienza, alla persona quale si costituisce nel flusso degli eventi, senza assolutizzarlo fino a perdere la dimensione etico-assiologica. Dietro stava la rinuncia all’idea della societas perfecta. Un movimento analogo accadeva all’interno della pedagogia marxiana, che, a questo punto, piegava verso lo studio delle condizioni concrete dei processi educativi, in particolare nel sistema scolastico. La caduta utopica apriva la stagione delle riforme: i decreti delegati, la modifica dei programmi della scuola media unificata, la nuova scuola elementare, l’avvio della Commissione Brocca.
Di qui il passaggio dalla pedagogia alle scienze dell’educazione, con il contorno di scienze umane: neuro-biologia, sociologia, psicologia, e di statistica, economia, didattica. Di questo passaggio, nel mondo cattolico fu protagonista Cesare Scurati. Non senza simpatie, in quel mondo, verso il neo-aristotelismo etico da parte di Pellerey e Bertagna. Nel mondo laico, fu Riccardo Massa a proporre l’uscita dalla pedagogia nel nome di una “clinica della formazione”, che si avvaleva degli strumenti della fenomenologia, dell’ermeneutica e delle scienze umane. Si può anche descrivere quella traiettoria come passaggio dalla pedagogia filosofica alla pedagogia empirica. Con ciò i pedagogisti si sono dispersi o sono passati “in altro”, impegnandosi, in particolare, sul terreno politico delle riforme scolastiche. Terreno quanto mai impervio e scarso di soddisfazioni.
Le avventure epistemologiche della pedagogia, o comunque si chiami oggi, continuano. Si confrontano con un fenomeno nuovo: quello della “perdita del mondo comune”, secondo l’espressione profetica di Hannah Arendt, che Chiosso cita a pag. 244. Detto in maniera meno criptica: se educare vuol dire che gli adulti passano ai ragazzi il testimone della civilizzazione, che cosa accade se gli adulti perdono il contatto con i ragazzi, se i ragazzi corrono avanti, senza attendere chi consegni loro il testimone? Che accade se non si muovono più nello stesso mondo? Se il narcisismo estremo spezza i fili della relazione con l’altro e con le generazioni, come è possibile l’educazione?
Sul piano filosofico questa condizione si definisce come nichilismo. Nessuna tecno-pedagogia è in grado di riempire l’abisso. E come riempirlo senza un ritorno alla realtà stessa, di cui la descrizione è, ora e sempre, un’ontologia? Più o meno con questi interrogativi Giorgio Chiosso conclude la sua storia della pedagogia del ‘900. Senza nostalgie per le stagioni passate, ma senza indulgenze teoretiche per le diaspore e le derive del presente. Dove collocheremo, dunque, l’autore in questa storia? Si può facilmente azzardare. Nel personalismo 2.0.