La notizia è scomoda e sono in molti oggi a non volersela sentir dire. In Italia il welfare universale è morto e sepolto sotto una montagna di 2169,9  miliardi di euro di debito (al 31 dicembre 2015, Repubblica.it). La situazione è veramente a rischio e come è noto, sanità, istruzione e previdenza subiscono a seconda delle stagioni politiche ristrutturazioni e riduzioni di spesa. In Italia l’istruzione gratuita è sancita, almeno per il primo ciclo, dall’articolo 34 della Costituzione ed è estesa sino a 16 anni, all’assolvimento dell’obbligo scolastico. Le cosiddette tasse erariali si pagano dunque solo per gli ultimi due anni delle superiori e constano, in terza (per la quarta) di 6,04 euro per l’iscrizione al ciclo finale, più 15,13 per la frequenza. In quarta (per la quinta) si versa solo la frequenza, sempre di 15,13, mentre in quinta è prevista solo un tassa per sostenere l’esame di Stato di 12,09 euro.



Si tratta veramente di cifre irrisorie e simboliche e il costo dell’istruzione cade interamente sulla fiscalità generale. Inoltre dato che le spese correnti del Miur superano abbondantemente il 90 per cento del suo bilancio, in questi anni i finanziamenti per la didattica e il funzionamento delle scuole sono stati drasticamente ridimensionati e tutti i dirigenti sanno come in questi ultimi anni il fondo d’istituto ormai sia ridotto al lumicino. Semplificando, lo Stato pensa agli stipendi del personale, gli enti locali alle strutture e agli arredi, ma per l’effettivo funzionamento della didattica, dei computer, del laboratori e di tante altre necessità, le singole scuole puntano su un fondo che deriva direttamente dagli utenti ed è previsto dal decreto legislativo 297 del 1994. Si tratta di un contributo volontario che varia da istituto a istituto la cui cifra va dai 50 sino a 150 euro e oltre all’anno, in cui spesso è compreso anche un contributo sull’assicurazione. La percentuale del versamento volontario si sta però riducendo drasticamente e in molte zone è già ampiamente sotto il 50 per cento.



Ovviamente è più alta nei licei al Nord e meno nei tecnici e professionali nel Meridione. Non ci sono dati precisi e forse il sistema scolastico non prevede un monitoraggio su tale contributo, proprio perché è deciso autonomamente dalle istituzioni scolastiche, ma il mancato versamento da parte delle famiglie mette in crisi l’effettivo funzionamento delle scuole. Un istituto superiore di circa 700-800 studenti può incassare una cifra che si aggira indicativamente su 50mila euro all’anno e spesso il fondo anche in modo non del tutto corretto viene impiegato per necessità non sempre consentite, anche perché i Comuni e le province, a cui è attribuito il compito della manutenzione, sono latitanti da circa vent’anni.



In altre parole, se viene a mancare anche il contributo volontario le istituzioni scolastiche non sanno più come tirare avanti, ma d’altronde la normativa vigente stabilisce che non possono esigere nulla dalle famiglie degli studenti iscritti. Alcuni abusi nel 2014 vennero alla ribalta grazie a servizi di trasmissioni televisive molto popolari, che fanno dello scandalo il proprio pane quotidiano e così il Miur fu costretto a far uscire una nota in cui si ribadiva la volontarietà del contributo. Da allora il gettito e sempre minore e così gli staff dei dirigenti scolastici cercano di raggranellare risorse da bandi nazionali su fondi europei e da progetti delle istituzioni locali. Una corsa quotidiana che dice come la coperta sia oramai del tutto ristretta. Tuttavia il punto centrale rimane: l’istruzione a costo zero non è più una strada percorribile. Lo si vede anche dai costi standard per studente emanati dal ministero dell’Economia. Sono dati noti, che indicano la dimensione della spesa. 

Infatti nelle istituzioni educative lo Stato spende 5.739,17 euro per studente nell’infanzia, 6.634,15 euro nella primaria, 6.835,85 euro nella secondaria di primo grado e 6.914,31 euro nelle superiori. Cifre colossali che potrebbero essere ridotte da una rivalutazione del sistema paritario, ma che le tendenze stataliste, e anche il governo Renzi, hanno marginalizzato. E allora se raffrontiamo i dati ci accorgiamo che la spesa quinquennale, per uno studente medio delle superiori che consegue il diploma, ammonta a circa 34.570 euro, mentre quello stesso studente versa di tasse solo 48,39 euro più un contributo volontario medio di circa 350 euro.

Da più parti, stracciandosi le vesti, si potrebbe sostenere che l’Italia è il fanalino di coda dei paesi Ocse con il 4,2 per cento del Pil investito in istruzione e l’8,2 per cento della spesa pubblica. Certo, ma in Italia aumentando la spesa non si migliora il sistema d’istruzione, anzi si vanno a riempire le scuole di docenti che nessuno avrebbe voluto assumere, con lo scopo di diminuire le supplenze che invece non diminuiscono affatto. Il problema sono i livelli di qualità, ma questo valore lo possono chiedere soltanto coloro che usufruiscono del servizio, che partecipano alla spesa contribuendo con una cifra sempre meno irrisoria. Insomma, versare di più per partecipare di più, perché secondo un noto adagio di Gaber “libertà è partecipazione”, ma oggi sappiamo che non è più gratuita.