Per anni, l’apprendistato è stato concepito come un contratto di lavoro subordinato a «causa mista», con la parte maggiore del lavoro e la parte minore «a contenuto formativo», solitamente lontana dalle operazioni richieste dal lavoro stesso. Questa concezione coincideva con l’impianto separatista diffuso in tutto il sistema di istruzione e formazione: i licei per l’università, la formazione professionale per il lavoro. La scuola, da una parte; il lavoro, dall’altra. Lo studio fino all’età adulta, poi solo lavoro fino alla vecchiaia. Le nobilitanti conoscenze teoriche da una parte; le competenze esecutive da esercitare senza intelligenza e cultura, dall’altra. 



Se poteva essere tollerata in un’epoca fordista nella quale poche persone dell’élite intellettuale dovevano comandare su tutte le altre le quali dovevano soltanto essere «dipendenti» ed obbedire alle istruzioni dei «superiori gerarchici», questa concezione dell’apprendistato e della cultura scolastica e formativa non poteva reggere dinanzi alle sfide della globalizzazione, delle nuove tecnologie, della società della conoscenza, di ciò che ormai è concordemente chiamata “quarta rivoluzione industriale”. 



Il merito storico del combinato disposto della riforma Moratti e della riforma Biagi del 2003 fu di aver compreso questa insostenibilità e di aver introdotto coraggiosamente non solo istituti giuridici discontinui rispetto al passato della nostra tradizione scolastica (personalizzazione, alternanza scuola lavoro, valutazione interna ed esterna, apprendistato non più concepito «a causa mista», ma come «il principale e più naturale canale per la transizione dalla scuola al lavoro e per un ingresso qualificato e qualificante dei giovani nel sistema produttivo»), ma anche e soprattutto di aver disegnato i nuclei concettuali di una nuova cultura della formazione, non più concepita sul modello separatista, ma fondata su quello integrativo. Studio e lavoro, teoria e pratica, scuola e impresa, età della formazione ed età del lavoro non più separati, ma sempre integrati. Anche nella formazione dei docenti. 



Soprattutto la riforma Moratti pagò con una sistematica demonizzazione, sterilizzazione e deformazione dei suoi migliori dispositivi la soluzione di continuità che aveva osato introdurre in una normativa scolastica ancora dominata e determinata dal gentilianesimo imperante. 

Tuttavia, la storia ha insegnato che le buone idee non muoiono mai: come l’acqua carsica, si inabissano e riaffiorano prima parzialmente e poi con maggiore, visibile fluenza. 

In Lombardia, dal 2005, con fatica, tra ostacoli amministrativi e legislativi romani di ogni genere e nel contesto di una cultura spesso pregiudizialmente ostile, abbiamo costruito un sistema di istruzione e formazione professionale caratterizzato proprio dal paradigma integrativo tra scuola e lavoro: tirocini curricolari, formazione mediante esperienze concrete di lavoro, esclusione dalle tipologie di alternanza scuola-lavoro di quelle esperienze realizzate secondo la modalità dell’assetto lavorativo simulato, ovvero che riproducono in modo soltanto verosimile le condizioni organizzative, le attività e le finalità dell’azienda vera, apprendistati formativi per le qualifiche e i diplomi. 

Con l’eloquenza dei fatti (meno dispersione, recupero dei drop out scolastici, tassi di occupazione finali dei nostri giovani che non hanno paragoni in Italia, soddisfazione delle famiglie, valorizzazione delle eccellenze), abbiamo convinto le famiglie e le imprese che il nostro sistema di istruzione e formazione professionale è di pari dignità rispetto a quello di istruzione statale. 

Infine, con la legge regionale 30/2015, abbiamo chiarito che asse centrale della formazione tipica della “quarta rivoluzione industriale” non può che essere l’apprendistato formativo di primo e di terzo livello. Infatti, condizioniamo le doti formazione che gli enti dell’istruzione e formazione professionale ricevono per ogni studente al vincolo di avere almeno il 5% di apprendisti di primo livello tra i loro “iscritti” e favoriamo in ogni modo possibile l’apprendistato di terzo livello, relativo a Its, lauree, dottorati e master universitari. Fortunatamente, la realtà ha già superato la nostra più ottimistica aspettativa: siamo oltre il 5% per il primo livello e stanno crescendo in maniera significativa anche le richieste per il terzo livello. 

Come ricordavamo anche nel recente convegno sulla nostra campagna Adotta un apprendista! svoltosi il 18 febbraio scorso nel palazzo della Regione con la presenza di importanti aziende nazionali e internazionali, il nostro desiderio è che si raggiungano quanto prima le due cifre, e che tali due cifre si irrobustiscano sempre più. 

Ciò significa che le imprese innovative lombarde sono sempre più consapevoli che il loro futuro (che poi vuol dire anche il nostro come Paese) si gioca sulla qualità del cosiddetto «capitale umano», ovvero sulla qualità di collaboratori che siano persone «sagge», «sapienti» e «creative», desiderose di imparare per tutta la vita, competenti nel fare squadra, rete, reciprocità relazionale in ogni aspetto della loro vita personale, sociale, ma non meno professionale, a partire dall’impresa. 

Siamo consapevoli del carattere visionario di questa prospettiva. Ma ci conforta il fatto che pure nella scuola statale, con la legge 107/2015, abbia ripreso slancio la teoria e la pratica dell’alternanza scuola-lavoro: almeno duecento ore obbligatorie nel triennio dei licei ed il doppio nel triennio dei tecnici e dei professionali. 

Non era questa l’idea della riforma Moratti, che si affidava all’autonomia delle scuole per promuovere questa importante metodologia formativa da impiegare anche per tutto il tempo scolastico dai 15 anni fino alla fine degli studi. Ma condivido ed apprezzo il senso dell’operazione, sebbene possa sembrare paradossale essere contenti della sua trasformazione in un obbligo perentorio ciò che nel 2003 doveva essere il prodotto dell’autonomia e della libertà delle istituzioni scolastiche. Solo provando e vedendone i frutti intenzionali e inintenzionali, perfino chi ancora resiste alla prospettiva dell’alternanza scuola-impresa, invocando improbabili referendum abrogativi, può persuadersi che si tratta di una straordinaria occasione formativa quando è ben condotta e sfruttata con adeguate professionalità. 

Per questo Regione Lombardia, con i contributi ai Poli tecnico-professionali, aiuta tutte le scuole statali che, nel Polo, fanno rete con le imprese, per consentire agli studenti esperienze sistematiche di alternanza. Confidiamo che anche con questi nostri aiuti, un poco alla volta, tutti comprendano che porre alternative tra studio e lavoro a qualsiasi età della vita personale, sociale e professionale è un modo per tradire la qualità auspicabile dell’uno e dell’altro.