Quando si parla di low performers, l’Italia è sempre in prima fila. Ocse-Pisa, nella più recente delle sue analisi secondarie che approfondiscono temi ritenuti rilevanti, ci concede di essere migliorati, e tuttavia continuiamo ad aggirarci nelle ultime posizioni. Non si parla però della disaggregazione territoriale a livello di macroaree che costantemente rivela dal 2000 che tutti gli alti lai che si innalzano sulla scuola italiana in realtà riguardano la scuola del Sud e Sud Isole ed in parte del Centro. A livello internazionale è chiaro che un paese risponde di sé nel suo complesso, ma a livello dei conti da regolarsi in casa è inutile, se non controproducente, fare la predica a chi non ha fatto niente per meritarla. Il che non significa che il Nord (Est ed Ovest) e soprattutto il Centro non potrebbero fare meglio in relazione al loro status economico-sociale, ma questa è un’altra storia.



Ma a proposito dei low performers, si può dire qualcosa di nuovo o almeno di meno scontato?

L’alta percentuale di quindicenni al di sotto del livello 2 che Ocse considera quello di accettabilità è stata messa in rilievo sin dalle prime edizioni dell’indagine. Dobbiamo sempre ricordare che il livello di accettabilità è comunque una convenzione, un assunto valido all’interno del mondo Ocse-Pisa che potrebbe anche risentire di un eccesso di aspettative da parte di intellettuali di alto livello che vivono in parti del mondo avanzate culturalmente. In ogni modo, fin da Pisa 2000 gli analisti hanno sottolineato che non solo nei Paesi indagati ci sono molti quindicenni a livello 1, ma che molti sono anche ben al di sotto di questo livello. Fino ad oggi Ocse ha naturalmente cercato di far entrare in Pisa la maggior quantità possibile di Paesi e, al di fuori di Ocse, si va evidentemente in zone in cui l’acclarato legame fra status economico-sociale e livelli di apprendimento rischia di trascinare questi ultimi in basso. Non si tratta solo di un addensamento di percentuale inaspettatamente alto: Pisa stessa ha dichiarato che la descrizione dei livelli bassi va perfezionata e forse i livelli vanno ulteriormente segmentati. 



Nel frattempo infatti erano entrati in gioco i grossi calibri. Dopo decenni di significativi investimenti economici sull’input (strutture, insegnanti, stipendi degli insegnanti) nei paesi che una volta si sarebbero definiti “in via di sviluppo”, i “donors” internazionali (World Bank, Unicef, etc.) hanno cominciato a porsi il problema del loro rendimento in relazione agli obiettivi del Mdg (Millennium Development Goal). Pare infatti che l’accesso alla formazione di base abbia raggiunto ampiamente il 90%, ma che non altrettanto positivi siano i risultati di questo grande sforzo. Una significativa percentuale di giovani arriva al termine della formazione di base senza sapere leggere e scrivere anche perché l’efficienza dei sistemi pubblici di istruzione lascia in quei paesi molto a desiderare; si è dunque diffusa la tendenza a varare valutazioni standardizzate esterne sul livello di apprendimento effettivamente raggiunto. 



Essendo i benchmark di quelle esistenti troppo alti e le loro metodologie colà scarsamente applicabili, nell’ultimo decennio si sono diffuse reti locali (India, Sudafrica etc.) che tenessero maggiormente conto del contesto. Tanto che non solo Ocse, ma anche Iea (la rete accademica che produce Timss, Pirls, Iccs) stanno varando indagini mirate a questo target: prePirls o Pirls Literacy e Timss Numeracy.

Tutta l’area della valutazione dei low performers è dunque in movimento, anche perché non mancano critiche al fatto che in quei paesi si siano puntate tutte le carte sull’istruzione di base e non su un ampiamento progressivo dell’istruzione secondaria che avrebbe potuto essere più agevole, più utile dal punto di vista dello sviluppo, anche se potenzialmente più concorrenziale con i paesi affluenti.

Paesi come l’Italia dovrebbero peraltro avere problemi diversi da quelli come l’Argentina, che pure ci tallonano.

Una seconda riflessione si impone a proposito della teoria del capitale umano, sulla base della quale Pisa afferma con sicurezza che, senza lo sviluppo dell’istruzione e soprattutto riducendo o azzerando i livelli più bassi di apprendimento, non si dà sviluppo economico e sociale. Si arriva a determinare le percentuali di incremento del Pil che deriverebbero da una certa percentuale di diminuzione dei livelli di apprendimento più bassi.

Questa teoria, sviluppatasi a partire dagli anni 60, non è più però oggi un assioma indiscutibile. Non sono mancati e non mancano infatti paesi in cui allo sviluppo dell’istruzione non ha corrisposto un proporzionale sviluppo economico (si tratta dell’Europa degli ultimi decenni e dell’Europa dell’Est ai tempi del “socialismo reale”). Per non dire dei paesi, collocati soprattutto nell’East Asia, in cui i fattori di sviluppo sembrano da ricondursi piuttosto a quella che in altri tempi si sarebbe chiamata “accumulazione primitiva del capitale” cioè allo sfruttamento della mano d’opera a basso costo. In questi casi l’espansione dell’istruzione sembra essere più una conseguenza che una causa. La parola d’ordine potrebbe essere: “dipende”. E’ chiaro che, per i paesi senza materie prime e senza manodopera a basso costo come quelli dell’Europa odierna, l’istruzione è uno strumento prezioso per la permanenza nell’area del benessere, come dimostra l’esempio della Finlandia. Ma non è detto che questa sia la regola dappertutto.

E da ultimo qualcosa sulle cause. Quando in cima alla graduatoria stavano i paesi del Nord Europa c’è stata molta insistenza da parte degli analisti Ocse sull’importanza del biennio unitario nella fascia di età 15-16. Si poteva però anche pensare che i due fenomeni — alti livelli di apprendimento e percorso unitario prolungato — fossero non concatenati casualmente, ma determinati in parallelo dal contesto sociale e culturale avanzato. Ora che le “tigri asiatiche” sono balzate in testa alla classifica, grande importanza viene attribuita al clima disciplinare, alla puntualità, alla presenza, in definitiva, di fattori a carattere etico-culturale.

Ed è qui che, a quanto pare, in Italia casca l’asino, come è stato messo in rilievo dal Sole 24 Ore nel pezzo dedicato al problema. I nostri studenti infatti non brillano per assiduità nella frequenza; già altre indagini, cui è stato dato troppo poco rilievo, avevano parlato di percentuali altissime di assenteismo, soprattutto negli istituti professionali. Con buona pace dei sostenitori dell’equivalenza fra orari lunghi e battaglia per l’equità.

Non è che la scuola italiana possa cambiare radicalmente lo stile della nostra nazione: stiamo un po’ perdendo l’illusione novecentesca che l’istruzione possa modellare e riformare le società. Tuttavia fra i fattori del successo scolastico, anche nei nostri ricchi paesi, forse è il caso di ricominciare ad annoverare, oltre alle dotazioni strumentali ed all’aggiornamento degli insegnanti, anche la serietà e l’impegno degli studenti. Non è necessario essere scintoisti per non bigiare.