L’italiano è indebolito dal prestigio dell’inglese? Così sembra, a prima vista. In ambito accademico, studiosi di vari settori devono scrivere in inglese per farsi leggere dalla comunità scientifica internazionale; per attirare studenti e docenti, in molti corsi universitari si usa l’inglese come lingua veicolare. Nelle scuole secondarie bisogna insegnare almeno una materia usando frasi fatte in inglese. Il mondo cambia sempre più velocemente e all’unisono; e pare che solo imitando l’inglese si possa dar voce alle novità: un match recente ha visto i followers della stepchild adoption contro i sostenitori del Family day. D’altronde, siamo arrivati alla sessantaseiesima edizione del Festival di Sanremo e nessuno, salvo, forse, qualche habitué del Casinó, invoca il ritorno della grafia San Remo, come è richiesta dal toponimo; ma tutti si riempiono la bocca di festival. Queste e simili espressioni imitano l’inglese per la forma e per l’uso, ma non sono inglese: sono espressioni di un idioma “italiano” lasco (rilassato, pigro, fiacco). 



Altro è l’uso dell’inglese “in bocca italiana”; in genere, la lingua non è dominata in modo saldo. Pazienza, se serve “per scopi speciali”. Ma usare frasi fatte è poco: servirebbe competenza della struttura e capacità di “leggere” la realtà secondo la categorialità offerta da questa lingua; inoltre, cambiando le tradizioni semiotico-culturali variano anche le pratiche testuali. Per esempio, la redazione di testi scientifici in inglese richiede la capacità di praticare un academic writing di matrice anglofona, che peraltro oggi è valido worldwide, con la globalizzazione della comunità scientifica. Anche le argomentazioni e le spiegazioni nel contesto della lezione scolastica hanno caratteristiche diverse in un contesto anglofono rispetto a quello di lingua italiana. Forse, per capire chi è anglofono e per farsi capire da lui/lei, non basta saper usare bene il lessico e le strutture grammaticali di base di quella lingua. Occorre una certa competenza culturale, che aiuta a cogliere il mondo da un punto di vista eccentrico rispetto al nostro.



L’uso di espressioni inglesi nel mondo risponde per lo più a esigenze strumentali: Shakespeare non interessa; si guarda allo stock exchange di Londra. È chiaro che — nella prospettiva utilitaristica oggi dominante — il termine comunicazione va preso in un senso povero. All’incirca, si richiedono le conoscenze utili per ottenere (nel caso del mittente) o per riconoscere (se è il destinatario) alcuni obiettivi minimi, che variano a seconda del contesto d’uso e non toccano il cuore dei soggetti coinvolti nell’esperienza della comunicazione linguistica in un senso profondo. Riprendendo, per semplicità, le funzioni del messaggio nel modello di Jakobson, è forse possibile rilevare come nella gestione dell’inglese siano favorite le conoscenze linguistiche utili per elaborare testi con la funzione referenziale dominante; qualche rilievo ha anche la funzione conativa (per influire e guidare l’azione altrui); le funzioni emotiva e poetica, che richiedono conoscenze raffinate della lingua, sembrano meno pertinenti agli obiettivi strumentali prevalenti.



Eppure, non è l’inglese a determinare le sofferenze della nostra lingua; l’italiano è comunque in buona compagnia: anche altre grandi Kultursprachen — il tedesco, per esempio — sembrano in affanno. È lo spirito dei tempi, che si esprime nell’inglese dei non anglofoni di madrelingua. Avanza una lingua ridotta e sclerotica, carente di plasticità e inadeguata ad esprimere la creatività dello sguardo umano sull’esperienza. Potrà fornire etichette utili per designare le novità della tecnica, che il senso comune chiama “scienza” (con irritazione degli scienziati). Non sarà una lingua capace di elaborare cultura. Poco importa se questa lingua di legno sia fatta di espressioni tratte dall’inglese o dall’italiano: resta uno strumento impoverito. Ma la povertà, più che della lingua, è dei parlanti, che sembrano aver decretato l’oblio di un patrimonio linguistico straordinario. Quel che si osserva per l’italiano, dicevamo, sembra valere anche per le altre grandi lingue, vere e proprie matrici culturali del nostro Occidente. Uno sguardo stanco e annoiato dell’esistenza umana è sempre meno esigente e si accontenta di poco. 

La ricchezza espressiva di una lingua consente una “lettura” raffinata dell’esperienza. La riduzione del lessico e delle strutture grammaticali comporta impoverimento categoriale. Nella storia molte lingue sono tramontate e hanno ceduto il passo ad altre, uscite vittoriose da vere e proprie guerre culturali. L’oblio di una lingua a volte ha significato il tramonto di una concezione del mondo; spesso, tuttavia, nei contatti di lingue una concezione del mondo si è diffusa da una comunità all’altra e ha continuato a formare la chiave di lettura dell’esperienza. Così è avvenuto, nei secoli, per la tradizione greco-romano-cristiana. 

Nella fase attuale sembra tuttavia che tramonti l’interesse a nutrire un punto di vista sulla realtà. Conta la tecnica e l’opinione. La tecnica è fatta coincidere con il progresso; l’opinione dominante si impone, anche contro l’evidenza e il principio di non contraddizione (che è considerato relativo a una cultura superata). In tale prospettiva, non c’è bisogno di una lingua. Bastano alcune nomenclature e una serie di espressioni che denotano procedure da applicare universalmente. Resta l’interesse per le lingue, per la loro densità categoriale e la loro diversità. Timeo hominem unius linguae, diceva Tesnière. Oltre ad apprendere altre lingue, bisogna comprenderle. E questo, lo si riesce a fare quando si comprende almeno una lingua — la propria (o le proprie, per chi ha la fortuna di essere cresciuto plurilingue). La cura dell’italiano è presupposto per comprendere il rapporto fra l’essere umano, il mondo e la lingua come struttura interpretativa del mondo.