Ogni venerdì, alle 14.30, mi viene il mal di pancia. È l’ora in cui le maestre di inglese dei miei figli, o meglio, le “teachers”, inviano ai genitori la mail con compiti per il fine settimana. Questi si sostanziano nella visione di presentazioni in Power point e studio di papelli in inglese su argomenti come il sistema geodetico, la filogenesi degli artropodi e il ciclo di Calvin. Detto per inciso, i miei figli sono rispettivamente in terza e quarta elementare — pardòn, primaria — e questi argomenti pare siano parte a pieno titolo dei programmi ministeriali. Solo che i miei figli li studiano in inglese. Non che siano iscritti a qualche istituto privato — pardòn, paritario — né a qualche scuola estera: si tratta solo del progetto Bei (Bilingual Education Italy) che dal 2010 interessa sei scuole primarie della Lombardia. Compresa quella sotto casa nostra.
Che fortuna, direte: ci sono famiglie che traslocano, pur di rientrare nel bacino d’utenza di una primaria Bei e far assistere i propri figli a lezioni di geography, science e literacy durante le quali la teacher entra in aula e per tutto il tempo parla di argomenti difficili in una lingua sconosciuta (anche se è italiana). Non è sadismo, ma apprendimento “per immersione”. Un po’ come quando, a quattro anni e nessuna intenzione di mettere la testa sott’acqua, ti gettano dove non tocchi per insegnarti a nuotare. Sarà traumatico, ma la maggior parte delle volte funziona.
Oltre al lavoro a scuola, il programma Bei presuppone un meticoloso lavoro. Non tanto da parte dei bambini, i quali, in preda alla signora che entra in classe e tutto il tempo emette strani versi, presto soccombono alla Sindrome di Stoccolma, quanto da parte dei genitori, che ogni fine settimana — e spesso anche durante la settimana — sono obbligati a studiarsi il sistema geodetico, la filogenesi degli artropodi e il ciclo di Calvin di cui sopra, in inglese, beninteso, per poterlo insegnare — di norma a memoria — ai propri figli, i quali a scuola emetteranno gli strani versi appresi. Ho scritto “obbligati” perché, come in altre situazioni, anche nel Bei, come nel film di Totò, chi si ferma è perduto e non c’è nessuna speranza di redenzione.
Il percorso è tutt’altro che facile, ma per il futuro dei nostri figli si fa questo e altro. Peccato che oggi apro il quotidiano la Repubblica e scopro che questo — e forse anche l’altro che ci danniamo a fare per loro — probabilmente è del tutto inutile: utilizzando il medesimo deep learning anche le macchine stanno imparando a tradurre simultaneamente.
Il che significa che tra qualche anno — nel 2016, secondo Alec Ross, autore di The industries of the future (Simon & Schuster), uscito oggi negli Stati Uniti — le barriere linguistiche non esisteranno più, abbattute da auricolari che tradurranno simultaneamente gli altri idiomi. Microsoft ci sta lavorando alacremente con il suo Skype translator, lanciato a fine 2014, che permette di conversare passando simultaneamente dall’inglese al tedesco, o allo spagnolo, francese, portoghese. E sì, anche italiano. Così, se ancora avevo qualche dubbio sulle colpe che i miei figli, una volta cresciuti, mi avrebbero rinfacciato, ora ne ho la certezza: con le cuffiette — pardòn, the earphones — del traduttore simultaneo nelle orecchie, mi manderanno a quel paese per avergli rovinato, da bambini, tanti pomeriggi insegnandogli l’inglese. Secondo voi, in che lingua lo faranno?