Alessandro D’Avenia ha recentemente scritto che lo scopo della scuola è accrescere la cultura e l’autonomia dei giovani e che perché tale fine si realizzi è necessario che ci sia un metodo, ovvero un cammino percorribile da maestri e allievi insieme per strappare questi ultimi dalla «tirannia del non senso» (La Stampa, 27 gennaio).



Vorrei soffermarmi su questa bella provocazione di D’Avenia, guardandola dal lato dei docenti, tentando un paragone tra il mestiere dell’insegnamento e quello dell’artista e servendomi di alcuni passi del fenomenologo francese Maurice Merleau-Ponty. 

Nel saggio Il linguaggio indiretto e le voci del silenzio (Segni, 1960) Merleau-Ponty descrive la natura del fenomeno creativo e la fecondità dell’opera d’arte con il termine husserliano Stiftung, da intendersi come “fondazione” e “iniziazione”. 



Tale fondazione, che prende avvio con la creazione di un’opera d’arte, per Merleau-Ponty ha due aspetti fondamentali. In primo luogo il senso non è mai prima o dopo l’opera, ma dentro di essa: “più che essere espresso dal quadro, il senso impregna il quadro“. In secondo luogo ogni gesto, umano, artistico e culturale genera una storia illimitata aprendo un nuovo campo di ricerca. Egli parla dell'”illimitata fecondità di ogni presente che, proprio perché è singolare e passa, non potrà mai cessare di esser stato e quindi di essere universalmente, ma soprattutto quella dei prodotti della cultura che continuano a valere dopo la loro apparizione e aprono un campo di ricerche in cui rivivono perpetuamente“. 



Questa fondazione è resa possibile dall’opera di ripresa dell’esistenza da parte dell’artista, così che l’opera d’arte assume i tratti di una forma nobile di memoria, dando al passato una nuova vita e non una semplice sopravvivenza, costruendo così una vera e propria tradizione.

Il pensatore francese ravvisa l’unità della pittura non tanto nelle classificazioni o negli inventari da  museo, bensì “in questo compito unico che si propone a tutti i pittori“, che è la ricreazione e la trasformazione del mondo attraverso l’espressione.

Abbandonato ogni approccio intellettualista alla pittura, non guardandola più dal punto di vista del “già arrivato” o di una sintesi già compiuta dal pensiero, è possibile riaprire lo sguardo alla profondità dell’atto creativo dell’artista, ovvero al suo stile originale che si dà nel presente. Solo se si ricolloca la pittura nel presente, afferma Merleau-Ponty, si possono far crollare le barriere che “il nostro purismo” ha moltiplicato fra noi e il pittore, e fra il pittore e la propria vita, demolendo l’alone magico creato dai musei intorno agli artisti e ritrovando così quella peculiare e originale maniera di abitare il mondo che chiamiamo “stile”. È lo stile dell’artista che “introduce un senso in ciò che non ne aveva, e dunque, invece di esaurirsi nell’istante in cui ha luogo, inaugura un ordine, fonda un’istituzione o una tradizione“. 

Considerando i diversi stili e le loro rispettive fondazioni la storia dell’arte smette le sue vesti museali e si riconosce “come il luogo delle nostre interrogazioni e dei nostri stupori“.
L’opera d’arte, come la parola, non è che un tentativo, una provocazione lanciata agli altri nel tempo a venire, un atto libero che interpella la libertà altrui e che sa generare una intersoggettività, una “vita universale“, un “ordine [non preordinato ] di verità comune“, in cui solo è possibile una coesistenza. L’arte non è dunque un mero strumento di piacere, ma un vero e proprio organo dello spirito nel quale si manifesta l’inesauribile profondità delle “cose”. Segni, linee e figure non smetteranno più di parlarci del senso del mondo, poiché “al vero è essenziale presentarsi, inizialmente e sempre, in un movimento che decentra, distende, sollecita la nostra immagine del mondo verso un senso più profondo“. L’attività dell’artista è per natura inesauribile e innestata nel presente, “è il senso di una genesi [che] non può totalizzarsi fuori del tempo, ed è ancora espressione. […] Se il pittore prende il pennello, è perché in un certo senso la pittura è ancora da fare“. 

E a scuola? È possibile che il lavoro quotidiano della didattica abbia la fecondità del gesto dell’artista? Qual è il nostro stile? Quale “fondazione” di senso stiamo favorendo? Come tentiamo di andare oltre la memoria breve dei nostri allievi e insediare i nostri insegnamenti nella loro memoria a lungo termine? Con quale metodo? Ogni insegnante, che non voglia diventare tiranno o ridursi alla sterilità, è aiutato da queste inaggirabili domande, tra lezioni e viaggi di istruzione, tra scrutinii e recuperi. Nell’orizzonte di un mondo sempre più pervaso e affascinato dalle tecnologie e segnato dal relativismo valoriale il problema del metodo, nell’accezione merleau-pontyana di stile, ritorna ad essere il problema fondamentale dell’insegnare. Un metodo fondato su un senso unitario e vissuto del sapere e incarnato in tentativi specifici e condivisibili, può favorire che la scuola rimanga un luogo vivo di educazione e non si riduca a una noiosa visita di un Museo che raccoglie morte vestigia del passato.