“Nessuno ci ha promesso niente. Forse un dio di altri tempi, lui sì, ci ha promesso un paradiso, che però non basta attendere, bisogna guadagnarsi. Nessuno ci ha promesso niente, perché nessuno in fin dei conti ha mai avuto a cuore la nostra felicità”.

Era il 2007 quando ai Colloqui Fiorentini dedicati a Cesare Pavese, col titolo Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo? due studentesse di Castrovillari, Annalisa e Jennifer, scrissero queste parole a conclusione della tesina con la quale partecipavano ai Colloqui. 



Era la sesta edizione di un’avventura giunta oggi alla sua quindicesima tappa. Quindici anni in cui ci siamo trovati, noi che organizziamo questo evento, a fare i conti con le domande di felicità, verità, bellezza, amore, amicizia, giustizia; con la fame di conoscenza di migliaia di studenti e docenti di tutta Italia. Quindici anni in cui l’imbattersi in questa domanda ci ha permesso di tenere vivo il nostro desiderio, perché questi studenti chiedevano qualcosa, ci chiedevano qualcosa: che degli adulti prendessero sul serio la loro domanda, che non la anestetizzassero, che non la inibissero con tranquillanti, che non facessero finta che non ci fosse, per rendere più “serena” la vita ai propri ragazzi. No! Quello che gli studenti in questi quindici anni ci hanno chiesto è che ci fosse qualcuno che prendesse sul serio le grandi domande di senso che abitano in noi. I Colloqui Fiorentini sono stati questa possibilità per più di 20mila studenti e docenti, questo spazio che si è aperto nella scuola italiana, in cui studiare la letteratura volesse dire innanzitutto poter prendere queste domande, metterle davanti agli occhi e farle risuonare, farle vibrare nel paragone con gli stessi interrogativi che hanno acceso l’animo dei più grandi uomini della nostra letteratura, in un dialogo, un colloquio a cuore aperto, fra studente, autore e docente. Le due stesse studentesse citate prima, alla fine di quell’edizione dei Colloqui ci scrissero: “Per noi sono stati i giorni della divina rivelazione”. E quest’anno un’altra studentessa alle prese con lo studio di Ungaretti scrive al suo insegnante: “Ho già quasi finito il libro di Ungaretti. Credo che questo poeta abbia già iniziato a cambiarmi la vita, prima che i colloqui arrivino. Non ho mai letto poesie in questo modo è la cosa che più mi sorprende è il fatto che non veda l’ora di andare a dormire con una matita nella mano destra e il libro poggiato sul cuscino. Non so, scrivo, scrivo, scrivo, e per la prima volta in vita mia mi sento libera”.



Così dovrebbe sempre essere la scuola; questo sono i Colloqui Fiorentini. Diceva la filosofa Maria Zambrano: “Non avere maestro è come non avere a chi domandare e, ancora più profondamente, non avere colui davanti al quale domandare a se stessi, il che significherebbe restare all’interno del labirinto primario che in origine è la mente di ogni uomo; restare rinchiuso come il Minotauro, traboccante d’impeto senza via d’uscita” (Per l’amore e per la libertà). 

Ecco l’immagine di tanti nostri studenti: minotauri, pieni di forza ribollente, ma che non si libera mai nella corsa della vita, perché prigionieri di un labirinto.



Un labirinto nel quale li rinchiudiamo spesso proprio noi adulti, per non farli soffrire, per non far sentire loro la realtà nella sua durezza, ma anche nella sua verità e bellezza.

Dice Camus: “Per un uomo senza paraocchi, non vi è spettacolo più bello di quello dell’intelligenza alle prese con una realtà che la supera” (Il mito di Sisifo). Perché la realtà ci supera sempre e così ci chiama ad intraprendere un cammino senza soste, un’avventura grandiosa verso la scoperta del significato del mondo e di sé. Ma quante volte la scuola è il luogo in cui questo cammino può iniziare?

Così abbiamo tentato di creare questo spazio, questa possibilità. E subito abbiamo visto attorno a noi aggregarsi un numero stupefacente non solo di studenti, ma anche di docenti. Abbiamo scoperto che la scuola italiana, contro ogni pregiudizio, era piena di insegnanti che desideravano un modo nuovo, diverso di fare il proprio lavoro, di stare con i propri studenti, ma erano soli, e non avevano dove guardare. I Colloqui sono stati per loro l’aprirsi di una possibilità ed essi subito l’hanno afferrata, sprigionando un’energia ed un entusiasmo creativo e appassionato che li ha spinti a rivoluzionare il proprio modo di lavorare. Perché anche loro, anche gli insegnanti, anche noi insegnanti, spesso ci sentiamo come minotauri, imprigionati nel labirinto delle cose che non vanno nella nostra professione, di un’immagine del nostro lavoro spesso ridotta a mera funzione burocratica, ma soprattutto di una logica di solitudine: l’insegnante spesso si considera un’isola autonoma. Invece ai Colloqui è stato possibile scoprire il grande valore del confronto, dell’incontro fra colleghi, di una compagnia di insegnanti che si concepisce insieme nell’affronto della professione. E che concepisce il proprio mestiere con un orizzonte più ampio del semplice stipendio, ma come strumento per imparare per primi la propria umanità, mentre si cerca di educare quella dei propri studenti.

Perché si insegna per accorgersi che non si finisce mai di imparare. Come dice il grande critico George Steiner: “Al termine della mia vita la sola cosa che posso dire è: «No, non ho capito»”.

Perché, per dirla con le parole di Verga: “Il semplice fatto umano farà pensare sempre” e l’avventura della conoscenza è un cammino infinito. E così Montale, Ungaretti, Pirandello, Pascoli, Svevo, Pavese, Calvino, Dante, Leopardi, Manzoni, Foscolo, Verga, D’Annunzio, Saba e ancora Ungaretti, sono stati gli incontri che hanno costellato questi quindici anni di storia dietro a parole come desiderio, libertà, infinito, amore, verità, promessa, stupore, mistero.

I Colloqui Fiorentini hanno voluto riportare con forza una certa concezione di conoscenza. Non una conoscenza finalizzata al dominio della realtà, ma finalizzata alla contemplazione del reale, con la sua bellezza, con la sua tensione verso l’infinito, con il suo profondo sentimento del mistero, del mistero come fattore intrinseco all’esistenza e motore della grande letteratura. Come dice Ungaretti: “Il mistero c’è, è in noi. Basta non dimenticarcene”.