Al concorso per insegnare italiano alle medie, nei primi anni ottanta, una delle prove verteva sul rapporto lingua/dialetto nelle scuole. Scelsi quella. I dialetti, la cui fine era già segnata, vivevano gli ultimi sussulti e non mancavano, insieme ai tentativi di conservarne la dimensione espressiva, le proposte di fare loro spazio nella didattica, soprattutto perché gli allievi non patissero un senso di esproprio e quasi di esilio. Confesso che quelle proposte mi sembravano poco convincenti e che mi sentivo poco disposta a dar peso alle analisi accorate di intellettuali come Pasolini, per esempio. Le lingue muoiono quando non sono più funzionali — così ragionavo —, quando sono insufficienti alle necessità comunicative della vita quotidiana, del lavoro, perfino dei rapporti familiari. Inutile qualunque terapia intensiva. Oggi, come per nemesi storica, vedo incamminarsi sulla stessa strada l’italiano. Non ho sofferto per la fine dei dialetti che non ho mai usato, soffro invece per l’italiano che amo. E se forse l’amore può far velo al giudizio, in compenso, come si sa, muove. Muove a riflettere, in questo caso, se non altro per dar ragione di dolori e indifferenze.
Non ho mai avuto dialetti perché, per i casi familiari e per le caratteristiche dello sviluppo dell’Italia del dopoguerra, avrei dovuto averne almeno tre, e tutti in qualche modo fuori contesto. Quindi restava l’italiano, l’italiano di genitori per i quali esso non era la lingua madre, e della scuola. Guadagni e perdite? Il guadagno è arrivato subito, un italiano più corretto di quello dei coetanei che spesso lo parlavano traducendo dal dialetto. La perdita si è rivelata più tardi, lentamente, e forse non si sarebbe rivelata affatto se la lingua non fosse diventata in qualche modo un mestiere: la concretezza. Quando la tua lingua non è la lingua madre dei tuoi, in qualche modo, poco o tanto, essa è staccata dalle sue radici, dalla carne e dal sangue, dalla terra di cui siamo impastati. E’ appannata (se non mancante) la coscienza immediata del concreto da cui viene l’astratto, la tranquilla certezza che prima viene il concreto, il solo obbligante, mentre da lì si può astrarre per tante vie, in fondo opinabili. Quanto si guadagna sul fronte della comunicazione si perde su quello dell’espressione o, per dirla in altri termini, anche più pertinenti, quanto si guadagna sul terreno dei concetti preconfezionati si perde su quello del pensiero che nasce dall’esperienza, con tendenza a spostarsi dal paragone creativo con la vita al disinfettato (sterile!) gioco dei concetti.
E’ un fatto che, come ci hanno detto in tanti, Pasolini e Calvino con chiarezza palmare e indiscutibile efficacia, gli italiani del dopoguerra hanno subito questa sorte, consegnati alla deprivazione espressiva della lingua dei media, in particolare quando la scuola ha mostrato un volto arcigno e sprezzante e non ha accompagnato a bere alla fonte, ovvero alla grande letteratura, alla lingua viva e concreta e visiva di Dante, Boccaccio, Machiavelli.
Da insegnante ho lottato, con me stessa, prima di tutto, per uscire e far uscire dalla lingua di plastica; ho sperato che la ferita si rimarginasse nelle nuove generazioni che non avevano subito lo strappo e che disponevano di maggiori opportunità culturali. E tra queste, in prima fila, la straordinaria risorsa del contatto con altre lingue, vive o morte, e della pratica della traduzione, che ti spinge ad affondare ogni volta nell’humus della lingua di partenza e in quello della lingua di arrivo, scoprendo per contrasto la ricchezza e la profondità che l’usurante chiacchiera nasconde e fa dimenticare.
Mi entusiasmava il fatto di avere di fronte le prime generazioni di figli del popolo non mortificate dall’estraneità linguistica, finalmente messe in condizioni di accostarsi al sapere, anche a quello più elevato, a partire dalla propria lingua madre, certo via via arricchendola e allargandone i confini, ma in ogni caso dominandola, tenendo insieme cultura e storia personale, comunicazione ed espressione, apprendimento e rielaborazione. E poi, il fascino delle lingue straniere, mondi, storie, civiltà, da cui imparare il gioco meraviglioso e infinito del simile e del diverso, dell’essere attirati dal diverso, dell’amarlo, del farlo proprio: l’Europa dei popoli e delle culture, qualcuno ricorda ancora questa frase?
Poi, chissà come, l’Europa dei popoli e delle culture è diventata l’Europa dell’anglofonia coatta: per le altre lingue, compresa la propria, c’è poco tempo e sempre meno soldi. Nel frattempo la lingua di Shakespeare si è staccata dai popoli e dalle culture che l’hanno prodotta, per non parlare delle letterature; si è trasformata in un elenco di vocaboli, frasi fatte e regole grammaticali imposte praticamente per legge uniformemente a tutti i cittadini europei.
Qui però qualcosa dev’essersi inceppato: qualcuno ha scoperto che “non si possono insegnare le lingue senza contenuti”. Bene. Recuperiamo dunque le conoscenze di letteratura, storia e civiltà che avevamo gettato alle ortiche? Non sia mai! Saranno le materie ancora pigramente insegnate in lingua madre a muoversi e collaborare: le si insegnerà in inglese, così finalmente serviranno a qualcosa.
L’insegnante sa poco e male l’inglese o comunque non è uno specialista? Meglio, intimidisce meno i ragazzi ed è meno fissato con le minuzie formali. La conoscenza limitata della lingua impoverisce la comunicazione del docente e ancor più la ricezione dell’allievo? E’ uno scotto da pagare, certo, ma ne vale la pena!
E così, in qualche decennio, abbiamo chiuso il cerchio. I figli del popolo si avviano a diventare di nuovo allievi alloglotti, destinati a mettere insieme una conoscenza non più che piattamente comunicativa della lingua madre, ma anche della lingua straniera; a recepire malamente nozioni schematicamente impartite che possono solo ripetere a memoria; a non avere strumenti linguistici idonei all’espressione originale né cognizioni sufficienti per l’elaborazione critica, che del resto non saprebbero articolare.
Un altro esproprio, insomma, in nome di una più estesa omologazione, mentre le classi dirigenti, fiere di essere più avanti su questa strada, strapazzano la lingua madre e si esibiscono in grotteschi para-anglismi che fanno status. Ma non importa, tanto restano classi dirigenti lo stesso.
Che cosa si vuol dire? Che bisogna opporsi alla formazione di una nuova koinè? Che è un male avere a disposizione uno strumento comunicativo con cui interagire, almeno a un livello minimo, con l’intero globo? Che la scuola non dovrebbe farsi carico di questa esigenza dettata indubbiamente dalla realtà delle cose?
No, certo. Le lingue muoiono quando devono morire, non c’è terapia intensiva che tenga. Però da ciò discende, per converso, che non occorre intervenire per ammazzarle.
Il futuro sarà la koinè anglofona, è molto probabile, ed è giusto fornire alle giovani generazioni conoscenze adeguate al mondo in cui dovranno muoversi. Ma è questo un buon motivo per ripetere tali e quali gli errori del passato? Davvero non c’è lo spazio per tenere conto di altri livelli della questione linguistica, così intimamente legata alla persona? In altre parole, è inevitabile, per tenere il passo con i tempi, produrre qualche generazione di chiacchieranti superficiali, di ripetitori meccanici, sia pure in più favelle?