Sono trascorse appena quarantotto ore dalla conclusione dei Colloqui fiorentini e la pioggia, che continua (attesa e sperata) a bagnare la nostra Sardegna, accompagna ora i ricordi come ha fatto con i pensieri e le emozioni di questa quindicesima edizione.

Il viaggio per mare che abbiamo scelto di percorrere in nave, per gustare appieno la gioia dell’attesa, è metafora di un’intera esperienza, cominciata in realtà quel sabato 28 febbraio di un anno fa, quando venne annunciato il nome dell’autore previsto per il 2016. Il viaggio è partito da un incontro, quello con Saba, quello con i ragazzi che ne hanno vissuto (non semplicemente “letto”) le poesie, quello con i docenti che, a titolo di aggiornamento personale come me, o come accompagnatori hanno contribuito a rendere davvero magica l’esperienza. 



Non c’è vero incontro se non cambia qualcosa dentro di noi: l’incontro è tale se genera una trasformazione, altrimenti è solo un passaggio superficiale, rapido ed effimero. In questo caso azzardo a dire che l’incontro si è fatto piccolo grande miracolo di bellezza, che ha dato la spinta a ripartire subito, a cominciare immediatamente il nuovo percorso in compagnia di Ungaretti, dei miei studenti e dei colleghi. Cosa è cambiato? Innanzitutto la volontà di con-dividere, di vivere insieme ad altri, di spartire con loro il dono della lettura e rilettura di un testo letterario: la percezione, cioè, di quanto sia preziosa la dimensione dello scambio, di un’opinione come di un semplice sguardo; in secondo luogo la necessità di con-tinuare, di non segnare un punto al termine della pagina, ma di proseguire il dialogo, ovvero di alimentare ancora la dimensione del colloquio, un parlare insieme che continua, oltre i tre giorni del convegno di febbraio, al di là degli spazi di una sempre incantevole Firenze. Ecco perché la meta è partire (Ungaretti, Lucca): i Colloqui fiorentini “drogano”, non possono esaurirsi in sé, ma gettano un seme che si fa subito germoglio, e che è una gioia nutrire. Il mare che separa la mia isola dalla Toscana e da tutte le altre regioni coinvolte ha così cessato di essere un ostacolo, divenendo piuttosto immagine di quell’altrove verso cui tendere, pronti a nuovi incontri. 



Il mare in cui Ungaretti ha navigato, ha naufragato, quello in cui ha scavato l’abisso dal quale ha riportato alla luce i suoi canti, per poi disperderli a noi, è quello che abbiamo entusiasticamente solcato per arrivare a Firenze, ma è anche quello che abbiamo attraversato nei mesi scorsi, durante i quali abbiamo cercato di incontrare il poeta fra i suoi versi e tra i suoi spazi bianchi, nell’attesa di incontrarlo poi insieme a tutti gli altri. 

Quella dei Colloqui fiorentini è esperienza di incontro fin dall’accoglienza, garbata e affettuosa, dei ragazzi dell’Istituto Marco Polo, che con attenta premura ci hanno accompagnato nelle sedi previste per le varie attività.



Le lezioni della mattina hanno dato il senso dell’importanza che si deve alla riflessione, al momento del silenzio, destinato non tanto e recepire passivamente informazioni e concetti, ma a “incontrare”, appunto, la voce di studiosi, esperti, poeti sul nostro stesso tragitto. Non importava tanto che venisse letta una poesia mai vista prima, o che fossero proposte riflessioni volte a stupire per originalità: il segreto del silenzio che si percepiva nelle aule, benché affollate, nasceva dalla volontà di creare lo spazio perché le riflessioni personali incrociassero sul loro cammino quelle del prof. Caspani, della prof.ssa Giappi, del prof. Ramat, del poeta Rondoni. In questo silenzio, riempito dall’eco delle emozioni che di volta in volta scoprivamo nel poeta e in noi stessi, c’è stato spazio anche per momenti di incomprensione, di perplessità, per lo sforzo di tenere sempre desta l’attenzione, ma io trovo che ci sia una profonda bellezza anche in questo senso della fatica, che dà la misura dell’impegno necessario ad andare incontro all’altro, un impegno che esige serietà e concentrazione e che offre in cambio la pienezza dell’arricchimento interiore. Così siamo giunti anche noi sulla cima del San Michele (il monte conquistato faticosamente da Ungaretti e dai suoi commilitoni nella dura esperienza di guerra, dal quale scrisse i versi immortali “m’illumino d’immenso”), tuffandoci nell’immensità di quel cielo e mare che ci ha inebriati di luce; abbiamo seguito più volte il corso di quei fiumi in cui Ungaretti ha ripassato le epoche della sua vita e nei quali noi, con lui, abbiamo ascoltato la parola che canta il mistero: quello del poeta, quello di ciascuno, fino alla commozione di fronte alle mani… pallidissime.. di Antonietto, il piccolo figlio morto a nove anni, e a quel per sempre con cui il padre si oppone all’eternità della morte, per affermare, invece, quella della viva presenza nella sua anima dell’animo del bimbo (si tratta dei versi di “Gridasti: soffoco”). “La morte non è il per sempre“, ha detto Davide Rondoni: Ungaretti ha trovato la sua forza ed anche noi dobbiamo cercare la nostra, darle forma e legarci ad essa con “affetto” (nella sua accezione etimologica da adficio).

I seminari pomeridiani sono l’occasione per vivere concretamente i Colloqui, in quanto da uno spunto iniziale nasce, davvero inesauribile, il dialogo tra i ragazzi, che sorprendono per la sensibilità con cui si accostano ai testi, per la profondità delle riflessioni condivise. Lo stupore è un’altra condizione dell’incontro: ecco, i seminari stupiscono, perché rivelano, in maniera sempre nuova, il desiderio degli studenti di vivere in prima persona ciò che non può e non deve restare confinato entro le pagine di un manuale, chiuso fra gli schemi di una definizione; ci palesano la freschezza con cui i giovani rinnovano una poesia grazie al modo in cui ne fanno esperienza, grazie al canto che loro stessi disperdono tra le sale del Palazzo dei Congressi, una volta scavata, nel profondo del proprio animo, la parola del poeta.  

Quando i docenti si riuniscono nell’assemblea dell’ultimo giorno, queste riflessioni diventano dono reciproco, autentico momento di scambio, già preludio all’incontro dell’anno successivo. “I Colloqui fiorentini siamo noi”, ha ribadito più volte il prof. Gilberto Baroni: non sono un luogo o una circostanza, sono persone, sono uomini disposti a cogliere il limpido stupore dell’immensità, oltre le difficoltà — reali — del mestiere; sono individui che diventano comunità per crescere imparando, per crescere insegnando.

E così la pioggia, battente per tutti e tre i giorni del convegno, non è stata capace di smorzare l’entusiasmo della premiazione, dei saluti finali, nella piena consapevolezza che ogni anno i Colloqui fiorentini non siano “la” meta, ma “una” meta, quella da cui partire per vivere la quotidianità della scuola disposti al colloquio, ad accogliere con rinnovato stupore il miracolo del cambiamento capace di generarsi ogni giorno.

L’aurora perfetta, quella cui agogna ogni uomo, dice Ungaretti, c’è: per coglierla nell’apparenza, nel limite, nell’imperfezione, c’è bisogno di incontrare chi illumina il nostro percorso e i Colloqui fiorentini offrono senza dubbio questo lampo improvviso.