Quando iniziai a fare il preside, più di 30 anni fa, non avevo alcuna preparazione né teorica né pratica. Però da 10 anni osservavo come docente i miei presidi ed ero continuamente stupito della loro totale passività, a volte inettitudine, nei confronti dei problemi della scuola. Stavano nel loro ufficio con uno sguardo ed un eloquio genericamente invitanti alla pazienza, alla buona volontà, alla concordia. E nei collegi docenti sempre più infuocati si limitavano a separare il legale dall’illegale, invitando come sempre alla concordia. Mi venne spontaneo coniare l’immagine del preside galleggiante, che uso tuttora.



Deciso a non fare il semplice galleggiante, quando ebbi il primo incarico di preside per prima cosa cercai di far stare i bidelli in una posizione fissa del corridoio. Apriti cielo! la finzione della reverenza ossequiosa si spezzò immediatamente. Riunioni sindacali, aumento immediato del contenzioso e delle richieste di precisazione. Reazioni anche criminali, come un sacco di immondizia rovesciato al centro della palestra con un buon numero di siringhe intorno. I docenti mi osservavano senza pronunciarsi. Io tenevo duro ma senza proclami muscolari. La cosa mi sembrava chiarissima e semplicissima; allora avevo ancora la tessera della Cgil e quindi…



Poi cercai di dare un ordine alla segreteria, che era un vero e proprio porto di mare e luogo di visite e di lunghi soggiorni amicali nel corso di tutta la mattinata. Di nuovo reazioni scomposte e durissime. Poi mi addentrai nella vita di classe. Spesso si verificavano dei furti, di fronte ai quali l’atteggiamento (per me incomprensibile) era  sempre lo stesso: non cercare il responsabile ma esortare ansiosamente il derubato a non portare a scuola soldi od oggetti attraenti. Mi buttai, anche per dare l’esempio, nella ricerca dei ladri e sempre, dico sempre, interrogando a strascico gli alunni, trovavo i colpevoli. Senza bisogno di atteggiamenti militareschi, ma semplicemente raccogliendo le informazioni che i ragazzi, interpellati individualmente, davano senza sforzo, quasi increduli che la vicenda interessasse veramente il “capo”. 



Nella scuola presto tutti mi guardarono con curiosità. Io capivo di essere anomalo rispetto ai presidi galleggianti, ma capivo anche l’enorme dimensione assunta dal galleggiamento e — ingenuo — me ne chiedevo il motivo. Ebbene, non avevo ancora capito che il “galleggiamento” era la condotta impartita dai vertici ministeriali!

L’anno successivo, vinto il concorso con 38/40 allo scritto, passai alla sede di titolarità. Erano gli anni di moda di alcune parole magiche, come “programmazione” e “curriculum personalizzato”. E del dominio del consiglio di classe sul singolo docente. Ma sul significato di progetto di istituto c’era il buio totale. Cominciai a cercare gli indicatori della vita dell’istituto scolastico, gli strumenti per rilevare lo stato di salute e le tendenze evolutive. 

Mi aspettavo il gradimento e perfino l’appoggio di tutti gli amanti della trasparenza. In particolare sul censimento, classe per classe, degli alunni problematici di cui tenevo un’apposita rubrica che usavo in tutte le riunioni dei consigli di classe. Non fu così, ed ancora oggi la questione non è sul tavolo  del lavoro formativo ed educativo. Da notare che io non facevo mia una teorizzazione definitiva e definitoria del lavoro scolastico. Altri l’avevano ed erano inconcludenti.

Non mi ritrovavo con i miei colleghi presidi che erano quasi sempre reticenti o militanti cioè, a mio parere, faziosi o parziali, incuranti della salute complessiva della scuola ma dediti ad obiettivi di moda nei media o nelle loro associazioni, come la lotta alle bocciature o alle misure disciplinari, o la diffusione del tempo pieno. Io non sposavo nessuna spinta particolare. Cercavo di fare nei collegi confronti leali, sinceri e dignitosi con sintesi non forzate e, di fatto, ampiamente maggioritarie.

In particolare non sostenevo la lotta aprioristica di alcuni per l’instaurazione del principio universal-risolutore, ma ponevo l’accento sulla verifica sistematica delle esperienze. Ad esempio sulle bocciature chiedevo un esame dell’esito del provvedimento sugli alunni l’anno successivo. Alla fine concordavamo, a grande maggioranza e dopo avvenimenti anche drammatici, che la ripetenza poteva essere utile, ma una volta sola nei primi otto anni, in prima media, salvo eccezioni ultra-meditate.

Il giornalino di consuntivo annuale della scuola crebbe anno dopo anno fino ad un livello di semplicità e ricchezza di dati descrittivi, e non propagandistici, di cui sono ancora fiero (se qualcuno lo desiderasse, su richiesta potrei farlo visionare facilmente).

Intanto aspettavo direttive chiarificatrici dall’alto.

Invano! Per trent’anni ho aspettato che dai vertici ministeriali scendessero direttive concrete per il buon governo della scuola, dalla gestione del personale alla disciplina, alla valutazione, all’apprendimento.

I vertici ministeriali avevano rinunciato al governo puntuale della scuola di Stato.

Avevano deciso di lasciarla in mano a tutti gli associazionismi (tra i quali prevalgono quelli sindacali) ed ai media e di seguire solo lo linea del minimo scontro e della minima spesa. Il ministero si è sempre limitato a gettare nel calderone dall’alto (come il re dell’isola di Laputa) nobili parole ed esortazioni di natura propagandistica come la personalizzazione, la sicurezza, la disabilità, l’accoglienza, il pof e programmi didattici mai verificati. Tutto senza incidere nel tessuto organizzativo e nella chiarificazione dei poteri decisionali e delle responsabilità. Il ministero non è  mai riuscito a prendere il comando operativo del sistema scolastico. Ci provò Berlinguer e finì male, ci sta riprovando Renzi ma è già impantanato.

Ma riportare in mano ministeriale il governo della scuola di Stato è doveroso oltre che utile e lecito. Il comando centrale garantirebbe sia l’uniformità minima del servizio scolastico, sia un’equa trattativa per l’autonomia e la specificità del singolo istituto. I presidi quindi si illudono quando chiedono oggi maggiore libertà. Libertà da cosa, se la spinta centrale di cui dovrebbero essere i portatori non c’è? 

In realtà nella scuola di Stato c’è carenza di guida concreta ministeriale. Alla guida concreta sono sostituiti proclami propagandistici fuori dal tempo e dallo spazio e quindi da ogni verifica e valutazione.

E così la maggioranza dei presidi continua a galleggiare negli istituti, afflitta dalle carte compilate per accontentare le richieste burocratiche del vertice (sempre assente, ma che abbonda nel mostrare al mondo le sue buone e nobilissime intenzioni) e chiedendo lacrimevole aiuto e lumi alle varie associazioni. Quando un singolo preside si mostra decisionista è uno che lavora in proprio e quasi sempre dà la sensazione di qualcosa di arbitrario, di gratuito, di soggettivistico, di unilaterale.

Ebbene, io sono convinto che solo con la ripresa da parte del ministero del comando attivo sulla scuola nazionale si potranno porre e risolvere in modo leale e costruttivo tutte le questioni, comprese quelle dell’autonomia e della territorialità. Si potrà parlare davvero di curricolo essenziale e opzionale, di concorsi nazionali e locali, di scuola statale e paritaria, di una valutazione vera sia degli alunni che del personale.

Senza la spinta di governo dal centro è impossibile, anche concettualmente, stabilire metodologie e criteri di valutazione vitali dei dirigenti e — a cascata — di tutto il personale. Se ogni 20 o 30 presidi ci fosse un dirigente operativo sovraordinato, la gestione quotidiana, il superamento delle anomalie, la definizione degli indicatori di adeguatezza e qualità, diventerebbero semplici. Ed i presidi, così selezionati e formati, controllati e governati, avrebbero l’energia e l’impostazione giuste per operare su tutto il personale delle scuole in modo non cervellotico o stravagante o propagandistico.

Il problema valutazione del personale oggi è  così intricato che a mio parere converrebbe limitarsi a focalizzare e trattare solo le fasce del “molto buono” e del “molto cattivo”, lasciando indisturbata nel mezzo la grande massa del personale.

Certo l’acquisizione nel ministero di una vera capacità di governo della scuola  implicherebbe l’abbandono della gestione simbolica di tipo propagandistico e della linea del minimo conflitto teorico. Dovrebbero essere cooptati e salire in alto non burocrati politicanti ma coloro che sul campo, dal basso, dal territorio, danno prova di capacità gestionali. 

Ed il primo gradino sopra il preside dovrebbe essere molto vicino sia al preside che al territorio. Nello stesso tempo la  sintonia del responsabile di 20 o 30 presidi col ministero, mediata dagli uffici regionali e provinciali, dovrebbe essere fuori discussione.

Sarebbe semplice selezionare i coordinatori territoriali di quei 20-30 presidi. Basterebbe scegliere tra i presidi più esperti e capaci. E ciò basandosi sul lavoro e quindi sul curricolo davvero realizzato nei loro istituti e non su prove di natura cognitiva astratta. Il ministero avrebbe immediatamente una base di 200-300 referenti vicinissimi al lavoro concreto nelle scuole con cui attuare, quotidianamente, sia l’indirizzo della scuole stesse che l’ascolto delle problematiche vere.

I ministri dovrebbero essere in prima fila in questo lavoro, imparando un poco dello stile decisionista che in altri campi il capo del governo sta mettendo in pratica. Buon governo significa misurarsi ogni giorno con i tempi e le quantità reali, con la distinzione chiara tra obbligatorio e discrezionale, con la definizione precisa di nazionale e locale, con la definizione concreta del buono e del cattivo e con tutte le decisioni e le verifiche conseguenti. 

E questo non solo può, ma deve avvenire per mettere fine al degrado nella scuola italiana.