Dunque arrivano i soldi! Il decreto con i criteri di riparto del Fondo per la valorizzazione dei docenti è stato firmato e ogni preside avrà a disposizione mediamente 23mila euro l’anno per premiare i docenti migliori. Chiariamo subito che la cifra è bassa, soprattutto pensando alle forme di salario accessorio che esistevano già (il cosiddetto fondo per il miglioramento dell’offerta formativa).  Queste disponibilità sono state ridotte negli ultimi 5 anni di oltre il 70% e il nuovo bonus per il merito ammonta a meno di un terzo di quello che è stato tagliato negli anni precedenti. Ma entra un principio nuovo: non solo premi a chi fa più ore, ma anche riconoscimenti alla qualità, a chi cioè, senza fare straordinari, dimostra di fare bene il proprio lavoro. E poi c’è un altro principio a cui le scuole non sono certo abituate: il dirigente decide. Se prima l’incentivazione economica era concordata al tavolo sindacale e sottoscritta dalle Rsu, adesso un comitato di docenti, genitori, studenti fissa i criteri che poi il preside applica, assegnando risorse a chi ritiene più conforme ai criteri. 



Si tratta del faticoso inizio, frutto di una complicata mediazione politica, che apre prospettive difficili quanto interessanti. La sfida più grande è rispetto al cuore della questione: in cosa consiste la qualità della docenza? Un lavoro atipico come l’insegnamento non genera prodotti immediatamente misurabili e non è riducibile a procedure standardizzate. D’altra parte un confronto ampio e senza preconcetti sul tema può solo far bene alla scuola che, se non troverà subito un sistema di indicatori condivisi e soprattutto misurabili, potrà comunque prendere atto della complessità dei fattori in gioco e dell’importanza di provare comunque a dare una risposta alla domanda sulla qualità. 



Nella scuola che dirigo ho provato a coinvolgere in modo ampio studenti, genitori e docenti nella ricerca di indicatori per la qualità. Ho utilizzato un sistema di consultazione anonima online e mi sono arrivate risposte un po’ deludenti sul piano dell’applicazione concreta e immediata, ma molto suggestive su quello dell’intensità emotiva. Mi hanno sorpreso soprattutto le risposte degli studenti che hanno partecipato di slancio (e parliamo di un istituto tecnico!) con osservazioni anche molto articolate. “Un bravo docente sa perché sta insegnando, sa che c’è sempre da imparare e si sa mettere in discussione, sa crescere con i suoi studenti, è umile, sa trattare i bravi studenti, ma ancor più i cattivi, è colto”, eccetera.



In tutto questo due rischi mi sembrano emergere, come in ogni momento di svolta. 

Il primo è il pericolo di appiattire tutto, creando un’idea standard di “buona docenza” che non esiste in natura perché ci sono tanti modi di essere bravo docente. Il pericolo è rafforzato dal fatto che la legge 107/2015 sulla Buona Scuola prevede un triennio di sperimentazione libera della premialità a cui far seguire un sistema di linee guida nazionali basate sulle scelte fatte dalle scuole nei primi tre anni. Se questo significa lavorare per la costruzione di un modello standard di docenza si rischia lo scivolamento inconsapevole verso la pedagogia di Stato. 

Il secondo pericolo è quello di promuovere un’idea di eccellenza individuale del tutto sganciata dalla dimensione collaborativa dell’essere docente. 

Le soluzioni tecniche per scongiurare questi pericoli esistono e vanno sviscerate nei comitati che stanno lavorando sui criteri per il bonus: evitare i sistemi a cumulo di punteggio su dimensioni onnicomprensive dell’essere docente, prevedere una grande dinamicità nel tempo dei criteri, andando di anno in anno a riconoscere campi diversi di competenze didattiche, promuovere la premialità di team, ecc. Ma sicuramente le scelte tecniche non possono prescindere dallo sforzo di mettere a fuoco e condividere un’idea di scuola da promuovere. Su questo si gioca una partita che può aprire verso una scuola più flessibile, plurale, collaborativa, inclusiva.