E’ iniziato il conto alla rovescia. Scavallati i fatidici cento giorni, nelle classi quinte si comincia a pensare seriamente all’esame di stato. Dopo le vacanze di Pasqua si entrerà nel rush finale. E bastassero le verifiche, le simulazioni, il programma da svolgere! Ci si mette pure la tesina! E già, perché questo è il momento in cui gli studenti devono anche stringere i tempi e dichiarare l’argomento del loro percorso individuale, col quale si inizierà il colloquio, così come previsto dalla legge.



Vi confesso che per la prima volta, dopo tanti anni, di fronte a uno studente che mi chiede un consiglio su come impostare il proprio lavoro, mi sento davvero a disagio. Un tempo avevo le idee chiare, pretendevo una ricerca seria e sensata, coerente, significativa. Dicevo: “Partiamo da qualcosa che ti interessa, o da un argomento che ti ha colpito quest’anno e vediamo di trovare dei collegamenti che non siano astrusi o pretestuosi”. Aggiungevo: “Guarda che hai solo pochi minuti per presentare il tuo percorso. Non c’è bisogno che parli di tutto lo scibile umano, non c’è bisogno che colleghi per forza tutte le materie. Ne bastano tre. Altrimenti rischi di replicare la tesina che hai fatto alla scuola media, un lavoretto che diceva qualcosina di tutto e niente di concreto”. Concludevo: “Quello che conta è che il lavoro sia davvero tuo, che sia figlio del tuo coinvolgimento, soprattutto che non sia una di quelle tesine preconfezionate, trite e ritrite, che girano sul web”.



Poi è arrivata la traumatica esperienza fatta da commissario interno l’anno scorso. E tutte le mie belle certezze sono crollate. Lì ho capito una cosa sorprendente: lo studente deve fare la tesina (chiamiamola così, anche se si tratta di un sommario di argomenti presentati sotto forma di mappa concettuale, resa più piacevole con l’aiuto di Power Point) non in funzione del proprio interesse (e quindi della propria maturazione), ma dell’esame stesso. 

Non si impara per la vita, ma per la commissione d’esame. Il rito prevede che il colloquio si apra con una decina di minuti a disposizione dello studente? E allora adeguiamoci! Alcuni non si fanno tanti problemi e scaricano tutto quello che possono scaricare. Ecco allora le tesine su Walt Disney, sui colori (che ci colleghi la fisica con l’Ottobre rosso), sulla depressione, sul sesso (ma castigato, però, perché mica si può scandalizzare la commissione!), sulla noia, sull’omosessualità (che ti fa sentire anche un po’ eroico perché combatti per i diritti delle minoranze). Ecco l’emancipazione femminile (le minoranze…), la luna, la Shoah, l’immancabile De Andrè… E’ la festa del banale, del sentito e risentito. Ma soprattutto ecco quelle esposizioni di sei o sette materie “collegate” tra loro, con salti logici spesso ridicoli, spiattellate in dieci minuti di corsa, tanto per accontentare tutti.



Chi è che ha creato questa orrenda situazione? Ovviamente noi docenti. Che siamo i primi a vivere come una reale scocciatura questa storia del percorso dello studente. Che volentieri ce ne freghiamo altamente perché “tanto non conta niente” (e, spiace dirlo, ma è proprio così). Ma, soprattutto, che poniamo vincoli, limiti asfissianti. Siamo noi a creare dei mostri. Perché “Devi mettere le materie d’indirizzo” (anche se magari stai finendo il classico e già ti vedi alla facoltà di ingegneria energetica); “Mi raccomando: mettici la materia del commissario esterno, che così è contento” (come se poi il commissario si accontentasse di quelle quattro nozioni spiattellate lì di corsa); “Gli argomenti devono essere quelli trattati nel programma, non altri” (e pazienza se con la letteratura italiana sei arrivato a D’Annunzio).

Siamo noi che imponiamo lacci e lacciuoli che deprimono, che bloccano, che costringono a lavorare solo in funzione dei “Kommissari” (parola che andrebbe abolita, se non altro perché evoca tristi memorie).

Faccio un esempio, per spiegarmi meglio. L’anno scorso una mia studente di liceo classico, per la prima volta, entra in contatto con l’arte di Pollock e rimane come folgorata. Di fronte a tanto entusiasmo (scusate, ma c’è qualcosa di più bello e importante del vedere negli occhi di una ragazza questo tipo di entusiasmo?) dico “bene, partiamo da qui”. Ovviamente lasciamo fuori il latino e il greco (come mettere insieme Euripide o Tacito con il dripping?). Scegliamo insieme gli argomenti di tre o quattro materie, avendo cura che il tutto sia molto coerente e coeso. Ne esce fuori un ottimo lavoro. Ma… orrore! Il collega esterno di greco e latino mi va in tilt. Voleva un “amo” per abboccare, un argomento delle sue materie per attaccarsi col colloquio. Che c’entra Pollock con un liceo classico? E allora eccoci a correre, all’ultimo momento, per escogitare il modo di fornire un amo al collega, un amo il meno improbabile possibile, per mettere insieme la cultura greca e latina con l’action painting. Non ricordo nemmeno più cosa abbia io dovuto escogitare per aiutare quella ragazza (o meglio, ricordo benissimo, ma vorrei rimuoverlo, perché mi sembra un collegamento così stupido che mi vergogno).

Il fatto è che, improvvisamente, mi sono reso conto che tutti i miei consigli che ritenevo seri e sensati, potevano diventare controproducenti. Che nel gioco dell’esame di Stato avevo indirizzato una ragazza sulla casella sbagliata. Che, insomma, bisognava recitare una parte, accettare il gioco delle parti, la forma-esame, come in un dramma di Pirandello. Perché tirarsene fuori è molto rischioso, soprattutto per i ragazzi che vanno di fronte ai “kommissari”.

Per cui oggi mi sento un inetto. Alzo le braccia. Quando do un consiglio aggiungo subito: “Qui lo dico e qui lo nego”. Perché mi sono davvero stancato di combattere contro una mentalità che è ormai diffusissima tra i miei colleghi. Non ho più voglia di recitare la parte del profeta disarmato. E allora vai con Internet! Scarica da Internet! Tanto “non serve a niente”.