Con l’arrivo della primavera, nella seconda media nella quale insegno, ho proposto la lettura di Specchio, un testo non facile di Quasimodo che ha aperto la strada a un’inaspettata serie di sorprese.
Quasimodo racconta di come le gemme si aprano sui rami, di come il cuore riposi per il verde nuovo dell’erba, dice che tutto gli sa di miracolo e che lui, adesso, è l’acqua che rispecchia nei fossi l’azzurro del cielo e il verde di quei germogli che fino a quel momento non c’erano.
Proprio così, dico io, il poeta è lo specchio di quel miracolo che lo circonda. E tu cosa sei? chiedo a Giorgia che mi guarda dai suoi occhiali troppo grossi per il suo faccino di bambina che cresce. Giorgia ha risposto e con lei molti altri, quasi tutti. E non me lo aspettavo. Ciascuno di loro si è detto disposto a scrivere qualche riga in cui raccontarsi attraverso una metafora. Se gliela avessi insegnata in un altro modo, forse quella sarebbe rimasta una parola ostile, così invece, attraverso Quasimodo e l’identità che lui trova tra sé e quell’acqua e che gli fa scoprire di sé qualcosa di nuovo, loro hanno capito cosa significa e a cosa può servire.
Io dico parole difficili come incremento gnoseologico perché un po’ mi sono esaltato, poi torno serio con loro. Non mi sogno neanche di chiedervi di scrivere una poesia, gli dico, non è questo che mi interessa. Mi interessa che voi diciate chi siete — e del resto è un po’ che questo avviene in vario modo e con vari strumenti nel programma di quest’anno. Ho dato un compito e l’hanno svolto. Non in versi, ma qualcuno ci è andato vicino. E il primo giorno di primavera, festa della poesia, con la Merini che sorride dalla pagina di Google, abbiamo messo i testi in un file del pc, abbiamo proiettato il primo sulla lim: Elisa, io sono il mare, diceva il titolo. Ho ingrandito il testo, ognuno di loro l’ha copiato sul quaderno e io ho cominciato a fare domande: avete capito cosa voleva dire davvero Elisa? E’ giusto che lei dica così se voleva raccontare che in fondo si sente ancora un mistero, che vorrebbe che gli altri scoprissero il tesoro che ha in fondo, sotto le onde e tra le correnti?
Hanno risposto, prendendosi cura del pensiero di una loro compagna, aiutandosi a renderlo chiaro, efficace, prendendosi cura, in fondo, di lei. Poi sono venute le indicazioni sulle parole: questa no, è troppo banale, bisogna trovarne una più poetica. Perché, chiedo io, ci sono parole più poetiche di altre? Ma qui c’è una ripetizione, ha detto un altro, e un altro gli ha risposto che ci stava, che era un’anafora e ci siamo sorpresi tutti che Federico si ricordasse quella roba lì. Pian piano ci siamo detti che sarebbe stato interessante farla diventare una poesia vera quel testo lì. E anche tutti gli altri.
Cosa sia una poesia vera non lo sappiamo, dico io, ma forse possiamo tentare di fare in modo che queste cose diventino chiare, precise, che ogni parola diventi necessaria per quel luogo in cui si trova e soprattutto possiamo tentare di scrivere qualcosa di onesto e di vero su noi. Così è stato, abbiamo lavorato su una decina di testi: Gregorio che era un rovo spinoso; Abdur che era una montagna insormontabile; Marco che era una vela; Valeria un arcobaleno; Yuri che è rabbia e tristezza. Era commovente vedere come ciascuno di loro prendesse sul serio l’altro e le sue parole, le facesse sue e poi ne suggerisse altre per essere fedele all’altro.
Al suono della campanella abbiamo spento il computer, chiusi i quaderni, con l’idea che nei giorni successivi avremmo finito. Ma il giorno 22, il giorno seguente, è stato un giorno di morte e di dolore, di nessuna rinascita, di pianto e di male. Ho fatto vedere la scena finale di Danton, avendo appena terminato di spiegare la rivoluzione francese e ho chiesto loro se quella poteva essere una soluzione, se una lama, un’altra violenza come da qualche parte forse abbiamo sentito, poteva essere una risposta. Poi ho aperto la pagina di un blog di un mio amico, Sebastiano Aglieco, poeta e maestro elementare, che riporto qui per intero:
Ho trascorso la giornata della poesia in classe, con i miei bambini. Abbiamo letto la lettera che Anna Bergna ci ha inviato, dopo che i bambini le hanno regalato alcune variazioni intorno alle sue poesie. Poi abbiamo disegnato le colombe di Picasso e le abbiamo usate come pretesto per scrivere. Una bimba ha perso la nonna e mi ha chiesto se poteva dedicarle una sua poesia. Ormai scrivono tutti, anche quelli che ci hanno messo più tempo. Non dò più neanche le consegne. Non è un compito la poesia, per loro, ma un desiderio. E’ fuori dai programmi, dalle valutazioni e, in fondo, è un modo per preservarla dall’ignoranza dei cattivi funzionari. E dai cattivi maestri.
I miei bambini sono tutti poeti. Sono esseri migliori. Almeno finché staranno con me. Che dire: sono uno sporco idealista, e persino orgoglioso e presuntuoso, ma le cose alte, se non sono interiori, mi infastidiscono. Non amo i palchi e i palchetti. Mi basta già il peso della mia cattedra, ormai solo ideale, perché le cattedre di legno non esistono più; anzi, spesso ci si vanno a sedere i bambini davanti alla mia cattedra e io nei loro banchi. Esistono ormai poche motivazioni per me, a frequentare il variegato mondo della poesia: meglio qui, dentro un’aula, a trasmettere qualcosa di vero e di profondo, piuttosto che fare vetrina.
Faccio leggere loro queste parole di Sebastiano. Io non nascondo la mia commozione, spiego loro cosa intendo con commozione: vuole dire essere mossi insieme, capite? Non è una cosa sentimentale, che riguarda l’interiorità. E’ proprio una questione diversa, è che il cuore che batte insieme a quello di un altro mette in azione, ti fa fare, camminare, andare nella stessa direzione. Ecco, ho detto loro, vedete: il maestro nuovo (un libro bellissimo che abbiamo finito di leggere insieme quindici giorni fa) esiste davvero, non sta solo sulle pagine di un libro. Ecco, ho detto, forse questo è il modo di migliore di stare a scuola oggi, in un giorno così pieno di male, di irrazionalità malvagia e cieca: il modo è quello che dice Sebastiano, quello che abbiamo ripercorso noi ieri e che continueremo adesso a fare. Prenderci cura dell’altro, della sua parola e della vita che essa contiene.
Ecco allora, apriamo di nuovo il file e ci troviamo Valeria che è una conchiglia; Riccardo che è l’estate; Desirée che è un seme e poi un albero, e poi tutti gli altri. Magari faremo un piccolo libricino alla fine dell’anno; ma oggi, oggi, c’è un altro modo di essere a scuola e di essere al mondo? Grazie Quasimodo, grazie Aglieco, grazie ragazzi, e grazie anche alla poesia che diventa capace di riaccendere la vita e la profezia di un bene dentro questo tempo doloroso e scuro.